<Virgilio
e quella fonte
che spandi di parlar si largo fiume?
che spandi di parlar si largo fiume?
Dante - La Divina Commedia
poetry.
LA DIVINA COMMEDIA
di Dante Alighieri
INFERNO
Inferno ? Canto I
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
che la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era e cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant' e amara che poco e piu morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
diro de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.
Io non so ben ridir com' i' v'intrai,
tant' era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch'i' fui al pie d'un colle giunto,
la dove terminava quella valle
che m'avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite gia de' raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l'acqua perigliosa e guata,
cosi l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lascio gia mai persona viva.
Poi ch'ei posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
si che 'l pie fermo sempre era 'l piu basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar piu volte volto.
Temp' era dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n su con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
si ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l'ora del tempo e la dolce stagione;
ma non si che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test' alta e con rabbiosa fame,
si che parea che l'aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fe gia viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch'uscia di sua vista,
ch'io perdei la speranza de l'altezza.
E qual e quei che volontieri acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva la dove 'l sol tace.
Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
<<Miserere di me>>, gridai a lui,
<<qual che tu sii, od ombra od omo certo! >>.
Rispuosemi: <<Non omo, omo gia fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patria ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
nel tempo de li dei falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d'Anchise che venne di Troia,
poi che 'l superbo Ilion fu combusto.
Ma tu perche ritorni a tanta noia?
perche non sali il dilettoso monte
ch'e principio e cagion di tutta gioia? >>.
<<Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar si largo fiume? >>,
rispuos' io lui con vergognosa fronte.
<<O de li altri poeti onore e lume,
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu' io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi>>.
<<A te convien tenere altro viaggio>>,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
<<se vuo' campar d'esto loco selvaggio;
che questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;
e ha natura si malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha piu fame che pria.
Molti son li animali a cui s'ammoglia,
e piu saranno ancora, infin che 'l veltro
verra, che la fara morir con doglia.
Questi non cibera terra ne peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sara tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui mori la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccera per ogne villa,
fin che l'avra rimessa ne lo 'nferno,
la onde 'nvidia prima dipartilla.
Ond' io per lo tuo me' penso e discerno
che tu mi segui, e io saro tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perche speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a cio piu di me degna:
con lei ti lascero nel mio partire;
che quello imperador che la su regna,
perch' i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua citta per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi e la sua citta e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi elegge! >>.
E io a lui: <<Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
accio ch'io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni la dov' or dicesti,
si ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti>>.
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
Inferno ? Canto II
Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m'apparecchiava a sostener la guerra
si del cammino e si de la pietate,
che ritrarra la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
o mente che scrivesti cio ch'io vidi,
qui si parra la tua nobilitate.
Io cominciai: <<Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtu s'ell' e possente,
prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvio il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo ando, e fu sensibilmente.
Pero, se l'avversario d'ogne male
cortese i fu, pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale
non pare indegno ad omo d'intelletto;
ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
ne l'empireo ciel per padre eletto:
la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u' siede il successor del maggior Piero.
Per quest' andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d'elezione,
per recarne conforto a quella fede
ch'e principio a la via di salvazione.
Ma io, perche venirvi? o chi 'l concede?
Io non Enea, io non Paulo sono;
me degno a cio ne io ne altri 'l crede.
Per che, se del venire io m'abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono>>.
E qual e quei che disvuol cio che volle
e per novi pensier cangia proposta,
si che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec' io 'n quella oscura costa,
perche, pensando, consumai la 'mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.
<<S'i' ho ben la parola tua intesa>>,
rispuose del magnanimo quell' ombra,
<<l'anima tua e da viltade offesa;
la qual molte fiate l'omo ingombra
si che d'onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand' ombra.
Da questa tema accio che tu ti solve,
dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamo beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi piu che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durera quanto 'l mondo lontana,
l'amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia e impedito
si nel cammin, che volt' e per paura;
e temo che non sia gia si smarrito,
ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con cio c'ha mestieri al suo campare,
l'aiuta si ch'i' ne sia consolata.
I' son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando saro dinanzi al segnor mio,
di te mi lodero sovente a lui".
Tacette allora, e poi comincia' io:
"O donna di virtu sola per cui
l'umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,
tanto m'aggrada il tuo comandamento,
che l'ubidir, se gia fosse, m'e tardi;
piu non t'e uo' ch'aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l'ampio loco ove tornar tu ardi".
"Da che tu vuo' saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
"perch' i' non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
c'hanno potenza di fare altrui male;
de l'altre no, che non son paurose.
I' son fatta da Dio, sua merce, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
ne fiamma d'esto 'ncendio non m'assale.
Donna e gentil nel ciel che si compiange
di questo 'mpedimento ov' io ti mando,
si che duro giudicio la su frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse:--Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando--.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov' i' era,
che mi sedea con l'antica Rachele.
Disse:--Beatrice, loda di Dio vera,
che non soccorri quei che t'amo tanto,
ch'usci per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che 'l combatte
su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? --.
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com' io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giu del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch'onora te e quei ch'udito l'hanno".
Poscia che m'ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir piu presto.
E venni a te cosi com' ella volse:
d'inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che e? perche, perche restai,
perche tanta vilta nel core allette,
perche ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e 'l mio parlar tanto ben ti promette? >>.
Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec' io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch'i' cominciai come persona franca:
<<Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch'ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!
Tu m'hai con disiderio il cor disposto
si al venir con le parole tue,
ch'i' son tornato nel primo proposto.
Or va, ch'un sol volere e d'ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro>>.
Cosi li dissi; e poi che mosso fue,
intrai per lo cammino alto e silvestro.
Inferno ? Canto III
'Per me si va ne la citta dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e 'l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'.
Queste parole di colore oscuro
vid' io scritte al sommo d'una porta;
per ch'io: <<Maestro, il senso lor m'e duro>>.
Ed elli a me, come persona accorta:
<<Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne vilta convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto>>.
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond' io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d'ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s'aggira
sempre in quell' aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io ch'avea d'error la testa cinta,
dissi: <<Maestro, che e quel ch'i' odo?
e che gent' e che par nel duol si vinta? >>.
Ed elli a me: <<Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
ne fur fedeli a Dio, ma per se fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
ne lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli>>.
E io: <<Maestro, che e tanto greve
a lor che lamentar li fa si forte? >>.
Rispuose: <<Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita e tanto bassa,
che 'nvidiosi son d'ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa>>.
E io, che riguardai, vidi una 'nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d'ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venia si lunga tratta
di gente, ch'i' non averei creduto
che morte tanta n'avesse disfatta.
Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l'ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d'i cattivi,
a Dio spiacenti e a' nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch'eran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a' lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
E poi ch'a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d'un gran fiume;
per ch'io dissi: <<Maestro, or mi concedi
ch'i' sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer si pronte,
com' i' discerno per lo fioco lume>>.
Ed elli a me: <<Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d'Acheronte>>.
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no 'l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: <<Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i' vegno per menarvi a l'altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.
E tu che se' costi, anima viva,
partiti da cotesti che son morti>>.
Ma poi che vide ch'io non mi partiva,
disse: <<Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
piu lieve legno convien che ti porti>>.
E 'l duca lui: <<Caron, non ti crucciare:
vuolsi cosi cola dove si puote
cio che si vuole, e piu non dimandare>>.
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Ma quell' anime, ch'eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che 'nteser le parole crude.
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch'attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s'adagia.
Come d'autunno si levan le foglie
l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d'Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Cosi sen vanno su per l'onda bruna,
e avanti che sien di la discese,
anche di qua nuova schiera s'auna.
<<Figliuol mio>>, disse 'l maestro cortese,
<<quelli che muoion ne l'ira di Dio
tutti convegnon qui d'ogne paese;
e pronti sono a trapassar lo rio,
che la divina giustizia li sprona,
si che la tema si volve in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
e pero, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona>>.
Finito questo, la buia campagna
tremo si forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che baleno una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l'uom cui sonno piglia.
Inferno ? Canto IV
Ruppemi l'alto sonno ne la testa
un greve truono, si ch'io mi riscossi
come persona ch'e per forza desta;
e l'occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov' io fossi.
Vero e che 'n su la proda mi trovai
de la valle d'abisso dolorosa
che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.
Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa.
<<Or discendiam qua giu nel cieco mondo>>,
comincio il poeta tutto smorto.
<<Io saro primo, e tu sarai secondo>>.
E io, che del color mi fui accorto,
dissi: <<Come verro, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto? >>.
Ed elli a me: <<L'angoscia de le genti
che son qua giu, nel viso mi dipigne
quella pieta che tu per tema senti.
Andiam, che la via lunga ne sospigne>>.
Cosi si mise e cosi mi fe intrare
nel primo cerchio che l'abisso cigne.
Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l'aura etterna facevan tremare;
cio avvenia di duol sanza martiri,
ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
d'infanti e di femmine e di viri.
Lo buon maestro a me: <<Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo' che sappi, innanzi che piu andi,
ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,
non basta, perche non ebber battesmo,
ch'e porta de la fede che tu credi;
e s'e' furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio>>.
Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,
pero che gente di molto valore
conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.
<<Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore>>,
comincia' io per voler esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
<<uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato? >>.
E quei che 'ntese il mio parlar coverto,
rispuose: <<Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.
Trasseci l'ombra del primo parente,
d'Abel suo figlio e quella di Noe,
di Moise legista e ubidente;
Abraam patriarca e David re,
Israel con lo padre e co' suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fe,
e altri molti, e feceli beati.
E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati>>.
Non lasciavam l'andar perch' ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.
Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand' io vidi un foco
ch'emisperio di tenebre vincia.
Di lungi n'eravamo ancora un poco,
ma non si ch'io non discernessi in parte
ch'orrevol gente possedea quel loco.
<<O tu ch'onori scienzia e arte,
questi chi son c'hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte? >>.
E quelli a me: <<L'onrata nominanza
che di lor suona su ne la tua vita,
grazia acquista in ciel che si li avanza>>.
Intanto voce fu per me udita:
<<Onorate l'altissimo poeta;
l'ombra sua torna, ch'era dipartita>>.
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand' ombre a noi venire:
sembianz' avevan ne trista ne lieta.
Lo buon maestro comincio a dire:
<<Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre si come sire:
quelli e Omero poeta sovrano;
l'altro e Orazio satiro che vene;
Ovidio e 'l terzo, e l'ultimo Lucano.
Pero che ciascun meco si convene
nel nome che sono la voce sola,
fannomi onore, e di cio fanno bene>>.
Cosi vid' i' adunar la bella scola
di quel segnor de l'altissimo canto
che sovra li altri com' aquila vola.
Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e 'l mio maestro sorrise di tanto;
e piu d'onore ancora assai mi fenno,
ch'e' si mi fecer de la loro schiera,
si ch'io fui sesto tra cotanto senno.
Cosi andammo infino a la lumera,
parlando cose che 'l tacere e bello,
si com' era 'l parlar cola dov' era.
Venimmo al pie d'un nobile castello,
sette volte cerchiato d'alte mura,
difeso intorno d'un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.
Genti v'eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorita ne' lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci cosi da l'un de' canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
si che veder si potien tutti quanti.
Cola diritto, sovra 'l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m'essalto.
I' vidi Eletra con molti compagni,
tra ' quai conobbi Ettor ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l'altra parte vidi 'l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che caccio Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia;
e solo, in parte, vidi 'l Saladino.
Poi ch'innalzai un poco piu le ciglia,
vidi 'l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid' io Socrate e Platone,
che 'nnanzi a li altri piu presso li stanno;
Democrito che 'l mondo a caso pone,
Diogenes, Anassagora e Tale,
Empedocles, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,
Diascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulio e Lino e Seneca morale;
Euclide geometra e Tolomeo,
Ipocrate, Avicenna e Galieno,
Averois, che 'l gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti a pieno,
pero che si mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.
La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l'aura che trema.
E vegno in parte ove non e che luca.
Inferno ? Canto V
Cosi discesi del cerchio primaio
giu nel secondo, che men loco cinghia
e tanto piu dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minos orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.
Dico che quando l'anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d'inferno e da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giu sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giu volte.
<<O tu che vieni al doloroso ospizio>>,
disse Minos a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio,
<<guarda com' entri e di cui tu ti fide;
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare! >>.
E 'l duca mio a lui: <<Perche pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi cosi cola dove si puote
cio che si vuole, e piu non dimandare>>.
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
la dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti e combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtu divina.
Intesi ch'a cosi fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
cosi quel fiato li spiriti mali
di qua, di la, di giu, di su li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di se lunga riga,
cosi vid' io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch'i' dissi: <<Maestro, chi son quelle
genti che l'aura nera si gastiga? >>.
<<La prima di color di cui novelle
tu vuo' saper>>, mi disse quelli allotta,
<<fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu si rotta,
che libito fe licito in sua legge,
per torre il biasmo in che era condotta.
Ell' e Semiramis, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.
L'altra e colei che s'ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi e Cleopatras lussuriosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi Paris, Tristano>>; e piu di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pieta mi giunse, e fui quasi smarrito.
<Virgilio
e quella fonte
che spandi di parlar si largo fiume? >>,
rispuos' io lui con vergognosa fronte.
<<O de li altri poeti onore e lume,
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu' io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi>>.
<<A te convien tenere altro viaggio>>,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
<<se vuo' campar d'esto loco selvaggio;
che questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;
e ha natura si malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha piu fame che pria.
Molti son li animali a cui s'ammoglia,
e piu saranno ancora, infin che 'l veltro
verra, che la fara morir con doglia.
Questi non cibera terra ne peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sara tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui mori la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccera per ogne villa,
fin che l'avra rimessa ne lo 'nferno,
la onde 'nvidia prima dipartilla.
Ond' io per lo tuo me' penso e discerno
che tu mi segui, e io saro tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perche speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a cio piu di me degna:
con lei ti lascero nel mio partire;
che quello imperador che la su regna,
perch' i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua citta per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi e la sua citta e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi elegge! >>.
E io a lui: <<Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
accio ch'io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni la dov' or dicesti,
si ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti>>.
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
Inferno ? Canto II
Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m'apparecchiava a sostener la guerra
si del cammino e si de la pietate,
che ritrarra la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
o mente che scrivesti cio ch'io vidi,
qui si parra la tua nobilitate.
Io cominciai: <<Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtu s'ell' e possente,
prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvio il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo ando, e fu sensibilmente.
Pero, se l'avversario d'ogne male
cortese i fu, pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale
non pare indegno ad omo d'intelletto;
ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
ne l'empireo ciel per padre eletto:
la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u' siede il successor del maggior Piero.
Per quest' andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d'elezione,
per recarne conforto a quella fede
ch'e principio a la via di salvazione.
Ma io, perche venirvi? o chi 'l concede?
Io non Enea, io non Paulo sono;
me degno a cio ne io ne altri 'l crede.
Per che, se del venire io m'abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono>>.
E qual e quei che disvuol cio che volle
e per novi pensier cangia proposta,
si che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec' io 'n quella oscura costa,
perche, pensando, consumai la 'mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.
<<S'i' ho ben la parola tua intesa>>,
rispuose del magnanimo quell' ombra,
<<l'anima tua e da viltade offesa;
la qual molte fiate l'omo ingombra
si che d'onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand' ombra.
Da questa tema accio che tu ti solve,
dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamo beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi piu che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durera quanto 'l mondo lontana,
l'amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia e impedito
si nel cammin, che volt' e per paura;
e temo che non sia gia si smarrito,
ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con cio c'ha mestieri al suo campare,
l'aiuta si ch'i' ne sia consolata.
I' son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando saro dinanzi al segnor mio,
di te mi lodero sovente a lui".
Tacette allora, e poi comincia' io:
"O donna di virtu sola per cui
l'umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,
tanto m'aggrada il tuo comandamento,
che l'ubidir, se gia fosse, m'e tardi;
piu non t'e uo' ch'aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l'ampio loco ove tornar tu ardi".
"Da che tu vuo' saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
"perch' i' non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
c'hanno potenza di fare altrui male;
de l'altre no, che non son paurose.
I' son fatta da Dio, sua merce, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
ne fiamma d'esto 'ncendio non m'assale.
Donna e gentil nel ciel che si compiange
di questo 'mpedimento ov' io ti mando,
si che duro giudicio la su frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse:--Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando--.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov' i' era,
che mi sedea con l'antica Rachele.
Disse:--Beatrice, loda di Dio vera,
che non soccorri quei che t'amo tanto,
ch'usci per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che 'l combatte
su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? --.
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com' io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giu del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch'onora te e quei ch'udito l'hanno".
Poscia che m'ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir piu presto.
E venni a te cosi com' ella volse:
d'inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che e? perche, perche restai,
perche tanta vilta nel core allette,
perche ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e 'l mio parlar tanto ben ti promette? >>.
Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec' io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch'i' cominciai come persona franca:
<<Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch'ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!
Tu m'hai con disiderio il cor disposto
si al venir con le parole tue,
ch'i' son tornato nel primo proposto.
Or va, ch'un sol volere e d'ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro>>.
Cosi li dissi; e poi che mosso fue,
intrai per lo cammino alto e silvestro.
Inferno ? Canto III
'Per me si va ne la citta dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e 'l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'.
Queste parole di colore oscuro
vid' io scritte al sommo d'una porta;
per ch'io: <<Maestro, il senso lor m'e duro>>.
Ed elli a me, come persona accorta:
<<Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne vilta convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto>>.
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond' io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d'ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s'aggira
sempre in quell' aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io ch'avea d'error la testa cinta,
dissi: <<Maestro, che e quel ch'i' odo?
e che gent' e che par nel duol si vinta? >>.
Ed elli a me: <<Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
ne fur fedeli a Dio, ma per se fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
ne lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli>>.
E io: <<Maestro, che e tanto greve
a lor che lamentar li fa si forte? >>.
Rispuose: <<Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita e tanto bassa,
che 'nvidiosi son d'ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa>>.
E io, che riguardai, vidi una 'nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d'ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venia si lunga tratta
di gente, ch'i' non averei creduto
che morte tanta n'avesse disfatta.
Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l'ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d'i cattivi,
a Dio spiacenti e a' nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch'eran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a' lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
E poi ch'a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d'un gran fiume;
per ch'io dissi: <<Maestro, or mi concedi
ch'i' sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer si pronte,
com' i' discerno per lo fioco lume>>.
Ed elli a me: <<Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d'Acheronte>>.
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no 'l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: <<Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i' vegno per menarvi a l'altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.
E tu che se' costi, anima viva,
partiti da cotesti che son morti>>.
Ma poi che vide ch'io non mi partiva,
disse: <<Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
piu lieve legno convien che ti porti>>.
E 'l duca lui: <<Caron, non ti crucciare:
vuolsi cosi cola dove si puote
cio che si vuole, e piu non dimandare>>.
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Ma quell' anime, ch'eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che 'nteser le parole crude.
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch'attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s'adagia.
Come d'autunno si levan le foglie
l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d'Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Cosi sen vanno su per l'onda bruna,
e avanti che sien di la discese,
anche di qua nuova schiera s'auna.
<<Figliuol mio>>, disse 'l maestro cortese,
<<quelli che muoion ne l'ira di Dio
tutti convegnon qui d'ogne paese;
e pronti sono a trapassar lo rio,
che la divina giustizia li sprona,
si che la tema si volve in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
e pero, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona>>.
Finito questo, la buia campagna
tremo si forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che baleno una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l'uom cui sonno piglia.
Inferno ? Canto IV
Ruppemi l'alto sonno ne la testa
un greve truono, si ch'io mi riscossi
come persona ch'e per forza desta;
e l'occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov' io fossi.
Vero e che 'n su la proda mi trovai
de la valle d'abisso dolorosa
che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.
Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa.
<<Or discendiam qua giu nel cieco mondo>>,
comincio il poeta tutto smorto.
<<Io saro primo, e tu sarai secondo>>.
E io, che del color mi fui accorto,
dissi: <<Come verro, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto? >>.
Ed elli a me: <<L'angoscia de le genti
che son qua giu, nel viso mi dipigne
quella pieta che tu per tema senti.
Andiam, che la via lunga ne sospigne>>.
Cosi si mise e cosi mi fe intrare
nel primo cerchio che l'abisso cigne.
Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l'aura etterna facevan tremare;
cio avvenia di duol sanza martiri,
ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
d'infanti e di femmine e di viri.
Lo buon maestro a me: <<Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo' che sappi, innanzi che piu andi,
ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,
non basta, perche non ebber battesmo,
ch'e porta de la fede che tu credi;
e s'e' furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio>>.
Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,
pero che gente di molto valore
conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.
<<Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore>>,
comincia' io per voler esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
<<uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato? >>.
E quei che 'ntese il mio parlar coverto,
rispuose: <<Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.
Trasseci l'ombra del primo parente,
d'Abel suo figlio e quella di Noe,
di Moise legista e ubidente;
Abraam patriarca e David re,
Israel con lo padre e co' suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fe,
e altri molti, e feceli beati.
E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati>>.
Non lasciavam l'andar perch' ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.
Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand' io vidi un foco
ch'emisperio di tenebre vincia.
Di lungi n'eravamo ancora un poco,
ma non si ch'io non discernessi in parte
ch'orrevol gente possedea quel loco.
<<O tu ch'onori scienzia e arte,
questi chi son c'hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte? >>.
E quelli a me: <<L'onrata nominanza
che di lor suona su ne la tua vita,
grazia acquista in ciel che si li avanza>>.
Intanto voce fu per me udita:
<<Onorate l'altissimo poeta;
l'ombra sua torna, ch'era dipartita>>.
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand' ombre a noi venire:
sembianz' avevan ne trista ne lieta.
Lo buon maestro comincio a dire:
<<Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre si come sire:
quelli e Omero poeta sovrano;
l'altro e Orazio satiro che vene;
Ovidio e 'l terzo, e l'ultimo Lucano.
Pero che ciascun meco si convene
nel nome che sono la voce sola,
fannomi onore, e di cio fanno bene>>.
Cosi vid' i' adunar la bella scola
di quel segnor de l'altissimo canto
che sovra li altri com' aquila vola.
Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e 'l mio maestro sorrise di tanto;
e piu d'onore ancora assai mi fenno,
ch'e' si mi fecer de la loro schiera,
si ch'io fui sesto tra cotanto senno.
Cosi andammo infino a la lumera,
parlando cose che 'l tacere e bello,
si com' era 'l parlar cola dov' era.
Venimmo al pie d'un nobile castello,
sette volte cerchiato d'alte mura,
difeso intorno d'un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.
Genti v'eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorita ne' lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci cosi da l'un de' canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
si che veder si potien tutti quanti.
Cola diritto, sovra 'l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m'essalto.
I' vidi Eletra con molti compagni,
tra ' quai conobbi Ettor ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l'altra parte vidi 'l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che caccio Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia;
e solo, in parte, vidi 'l Saladino.
Poi ch'innalzai un poco piu le ciglia,
vidi 'l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid' io Socrate e Platone,
che 'nnanzi a li altri piu presso li stanno;
Democrito che 'l mondo a caso pone,
Diogenes, Anassagora e Tale,
Empedocles, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,
Diascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulio e Lino e Seneca morale;
Euclide geometra e Tolomeo,
Ipocrate, Avicenna e Galieno,
Averois, che 'l gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti a pieno,
pero che si mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.
La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l'aura che trema.
E vegno in parte ove non e che luca.
Inferno ? Canto V
Cosi discesi del cerchio primaio
giu nel secondo, che men loco cinghia
e tanto piu dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minos orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.
Dico che quando l'anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d'inferno e da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giu sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giu volte.
<<O tu che vieni al doloroso ospizio>>,
disse Minos a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio,
<<guarda com' entri e di cui tu ti fide;
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare! >>.
E 'l duca mio a lui: <<Perche pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi cosi cola dove si puote
cio che si vuole, e piu non dimandare>>.
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
la dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti e combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtu divina.
Intesi ch'a cosi fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
cosi quel fiato li spiriti mali
di qua, di la, di giu, di su li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di se lunga riga,
cosi vid' io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch'i' dissi: <<Maestro, chi son quelle
genti che l'aura nera si gastiga? >>.
<<La prima di color di cui novelle
tu vuo' saper>>, mi disse quelli allotta,
<<fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu si rotta,
che libito fe licito in sua legge,
per torre il biasmo in che era condotta.
Ell' e Semiramis, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.
L'altra e colei che s'ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi e Cleopatras lussuriosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi Paris, Tristano>>; e piu di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pieta mi giunse, e fui quasi smarrito.
I' cominciai: <<Poeta, volontieri
parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
e paion si al vento esser leggeri>>.
Ed elli a me: <<Vedrai quando saranno
piu presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno>>.
Si tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: <<O anime affannate,
venite a noi parlar, s'altri nol niega! >>.
Quali colombe dal disio chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere, dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov' e Dido,
a noi venendo per l'aere maligno,
si forte fu l'affettuoso grido.
<<O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l'universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c'hai pieta del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui.
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer si forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense>>.
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand' io intesi quell' anime offense,
china' il viso, e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: <<Che pense? >>.
Quando rispuosi, cominciai: <<Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
meno costoro al doloroso passo! >>.
Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
e cominciai: <<Francesca, i tuoi martiri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri? >>.
E quella a me: <<Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e cio sa 'l tuo dottore.
Ma s'a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
diro come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per piu fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi bascio tutto tremante.
LA DIVINA COMMEDIA
di Dante Alighieri
INFERNO
Inferno ? Canto I
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
che la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era e cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant' e amara che poco e piu morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
diro de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.
Io non so ben ridir com' i' v'intrai,
tant' era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch'i' fui al pie d'un colle giunto,
la dove terminava quella valle
che m'avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite gia de' raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l'acqua perigliosa e guata,
cosi l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lascio gia mai persona viva.
Poi ch'ei posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
si che 'l pie fermo sempre era 'l piu basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar piu volte volto.
Temp' era dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n su con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
si ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l'ora del tempo e la dolce stagione;
ma non si che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test' alta e con rabbiosa fame,
si che parea che l'aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fe gia viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch'uscia di sua vista,
ch'io perdei la speranza de l'altezza.
E qual e quei che volontieri acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva la dove 'l sol tace.
Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
<<Miserere di me>>, gridai a lui,
<<qual che tu sii, od ombra od omo certo! >>.
Rispuosemi: <<Non omo, omo gia fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patria ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
nel tempo de li dei falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d'Anchise che venne di Troia,
poi che 'l superbo Ilion fu combusto.
Ma tu perche ritorni a tanta noia?
perche non sali il dilettoso monte
ch'e principio e cagion di tutta gioia? >>.
<<Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar si largo fiume? >>,
rispuos' io lui con vergognosa fronte.
<<O de li altri poeti onore e lume,
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu' io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi>>.
<<A te convien tenere altro viaggio>>,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
<<se vuo' campar d'esto loco selvaggio;
che questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;
e ha natura si malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha piu fame che pria.
Molti son li animali a cui s'ammoglia,
e piu saranno ancora, infin che 'l veltro
verra, che la fara morir con doglia.
Questi non cibera terra ne peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sara tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui mori la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccera per ogne villa,
fin che l'avra rimessa ne lo 'nferno,
la onde 'nvidia prima dipartilla.
Ond' io per lo tuo me' penso e discerno
che tu mi segui, e io saro tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perche speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a cio piu di me degna:
con lei ti lascero nel mio partire;
che quello imperador che la su regna,
perch' i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua citta per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi e la sua citta e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi elegge! >>.
E io a lui: <<Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
accio ch'io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni la dov' or dicesti,
si ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti>>.
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
Inferno ? Canto II
Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m'apparecchiava a sostener la guerra
si del cammino e si de la pietate,
che ritrarra la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
o mente che scrivesti cio ch'io vidi,
qui si parra la tua nobilitate.
Io cominciai: <<Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtu s'ell' e possente,
prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvio il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo ando, e fu sensibilmente.
Pero, se l'avversario d'ogne male
cortese i fu, pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale
non pare indegno ad omo d'intelletto;
ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
ne l'empireo ciel per padre eletto:
la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u' siede il successor del maggior Piero.
Per quest' andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d'elezione,
per recarne conforto a quella fede
ch'e principio a la via di salvazione.
Ma io, perche venirvi? o chi 'l concede?
Io non Enea, io non Paulo sono;
me degno a cio ne io ne altri 'l crede.
Per che, se del venire io m'abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono>>.
E qual e quei che disvuol cio che volle
e per novi pensier cangia proposta,
si che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec' io 'n quella oscura costa,
perche, pensando, consumai la 'mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.
<<S'i' ho ben la parola tua intesa>>,
rispuose del magnanimo quell' ombra,
<<l'anima tua e da viltade offesa;
la qual molte fiate l'omo ingombra
si che d'onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand' ombra.
Da questa tema accio che tu ti solve,
dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamo beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi piu che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durera quanto 'l mondo lontana,
l'amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia e impedito
si nel cammin, che volt' e per paura;
e temo che non sia gia si smarrito,
ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con cio c'ha mestieri al suo campare,
l'aiuta si ch'i' ne sia consolata.
I' son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando saro dinanzi al segnor mio,
di te mi lodero sovente a lui".
Tacette allora, e poi comincia' io:
"O donna di virtu sola per cui
l'umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,
tanto m'aggrada il tuo comandamento,
che l'ubidir, se gia fosse, m'e tardi;
piu non t'e uo' ch'aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l'ampio loco ove tornar tu ardi".
"Da che tu vuo' saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
"perch' i' non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
c'hanno potenza di fare altrui male;
de l'altre no, che non son paurose.
I' son fatta da Dio, sua merce, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
ne fiamma d'esto 'ncendio non m'assale.
Donna e gentil nel ciel che si compiange
di questo 'mpedimento ov' io ti mando,
si che duro giudicio la su frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse:--Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando--.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov' i' era,
che mi sedea con l'antica Rachele.
Disse:--Beatrice, loda di Dio vera,
che non soccorri quei che t'amo tanto,
ch'usci per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che 'l combatte
su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? --.
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com' io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giu del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch'onora te e quei ch'udito l'hanno".
Poscia che m'ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir piu presto.
E venni a te cosi com' ella volse:
d'inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che e? perche, perche restai,
perche tanta vilta nel core allette,
perche ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e 'l mio parlar tanto ben ti promette? >>.
Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec' io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch'i' cominciai come persona franca:
<<Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch'ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!
Tu m'hai con disiderio il cor disposto
si al venir con le parole tue,
ch'i' son tornato nel primo proposto.
Or va, ch'un sol volere e d'ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro>>.
Cosi li dissi; e poi che mosso fue,
intrai per lo cammino alto e silvestro.
Inferno ? Canto III
'Per me si va ne la citta dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e 'l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'.
Queste parole di colore oscuro
vid' io scritte al sommo d'una porta;
per ch'io: <<Maestro, il senso lor m'e duro>>.
Ed elli a me, come persona accorta:
<<Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne vilta convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto>>.
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond' io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d'ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s'aggira
sempre in quell' aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io ch'avea d'error la testa cinta,
dissi: <<Maestro, che e quel ch'i' odo?
e che gent' e che par nel duol si vinta? >>.
Ed elli a me: <<Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
ne fur fedeli a Dio, ma per se fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
ne lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli>>.
E io: <<Maestro, che e tanto greve
a lor che lamentar li fa si forte? >>.
Rispuose: <<Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita e tanto bassa,
che 'nvidiosi son d'ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa>>.
E io, che riguardai, vidi una 'nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d'ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venia si lunga tratta
di gente, ch'i' non averei creduto
che morte tanta n'avesse disfatta.
Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l'ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d'i cattivi,
a Dio spiacenti e a' nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch'eran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a' lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
E poi ch'a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d'un gran fiume;
per ch'io dissi: <<Maestro, or mi concedi
ch'i' sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer si pronte,
com' i' discerno per lo fioco lume>>.
Ed elli a me: <<Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d'Acheronte>>.
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no 'l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: <<Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i' vegno per menarvi a l'altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.
E tu che se' costi, anima viva,
partiti da cotesti che son morti>>.
Ma poi che vide ch'io non mi partiva,
disse: <<Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
piu lieve legno convien che ti porti>>.
E 'l duca lui: <<Caron, non ti crucciare:
vuolsi cosi cola dove si puote
cio che si vuole, e piu non dimandare>>.
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Ma quell' anime, ch'eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che 'nteser le parole crude.
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch'attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s'adagia.
Come d'autunno si levan le foglie
l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d'Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Cosi sen vanno su per l'onda bruna,
e avanti che sien di la discese,
anche di qua nuova schiera s'auna.
<<Figliuol mio>>, disse 'l maestro cortese,
<<quelli che muoion ne l'ira di Dio
tutti convegnon qui d'ogne paese;
e pronti sono a trapassar lo rio,
che la divina giustizia li sprona,
si che la tema si volve in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
e pero, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona>>.
Finito questo, la buia campagna
tremo si forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che baleno una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l'uom cui sonno piglia.
Inferno ? Canto IV
Ruppemi l'alto sonno ne la testa
un greve truono, si ch'io mi riscossi
come persona ch'e per forza desta;
e l'occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov' io fossi.
Vero e che 'n su la proda mi trovai
de la valle d'abisso dolorosa
che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.
Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa.
<<Or discendiam qua giu nel cieco mondo>>,
comincio il poeta tutto smorto.
<<Io saro primo, e tu sarai secondo>>.
E io, che del color mi fui accorto,
dissi: <<Come verro, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto? >>.
Ed elli a me: <<L'angoscia de le genti
che son qua giu, nel viso mi dipigne
quella pieta che tu per tema senti.
Andiam, che la via lunga ne sospigne>>.
Cosi si mise e cosi mi fe intrare
nel primo cerchio che l'abisso cigne.
Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l'aura etterna facevan tremare;
cio avvenia di duol sanza martiri,
ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
d'infanti e di femmine e di viri.
Lo buon maestro a me: <<Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo' che sappi, innanzi che piu andi,
ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,
non basta, perche non ebber battesmo,
ch'e porta de la fede che tu credi;
e s'e' furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio>>.
Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,
pero che gente di molto valore
conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.
<<Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore>>,
comincia' io per voler esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
<<uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato? >>.
E quei che 'ntese il mio parlar coverto,
rispuose: <<Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.
Trasseci l'ombra del primo parente,
d'Abel suo figlio e quella di Noe,
di Moise legista e ubidente;
Abraam patriarca e David re,
Israel con lo padre e co' suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fe,
e altri molti, e feceli beati.
E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati>>.
Non lasciavam l'andar perch' ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.
Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand' io vidi un foco
ch'emisperio di tenebre vincia.
Di lungi n'eravamo ancora un poco,
ma non si ch'io non discernessi in parte
ch'orrevol gente possedea quel loco.
<<O tu ch'onori scienzia e arte,
questi chi son c'hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte? >>.
E quelli a me: <<L'onrata nominanza
che di lor suona su ne la tua vita,
grazia acquista in ciel che si li avanza>>.
Intanto voce fu per me udita:
<<Onorate l'altissimo poeta;
l'ombra sua torna, ch'era dipartita>>.
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand' ombre a noi venire:
sembianz' avevan ne trista ne lieta.
Lo buon maestro comincio a dire:
<<Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre si come sire:
quelli e Omero poeta sovrano;
l'altro e Orazio satiro che vene;
Ovidio e 'l terzo, e l'ultimo Lucano.
Pero che ciascun meco si convene
nel nome che sono la voce sola,
fannomi onore, e di cio fanno bene>>.
Cosi vid' i' adunar la bella scola
di quel segnor de l'altissimo canto
che sovra li altri com' aquila vola.
Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e 'l mio maestro sorrise di tanto;
e piu d'onore ancora assai mi fenno,
ch'e' si mi fecer de la loro schiera,
si ch'io fui sesto tra cotanto senno.
Cosi andammo infino a la lumera,
parlando cose che 'l tacere e bello,
si com' era 'l parlar cola dov' era.
Venimmo al pie d'un nobile castello,
sette volte cerchiato d'alte mura,
difeso intorno d'un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.
Genti v'eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorita ne' lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci cosi da l'un de' canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
si che veder si potien tutti quanti.
Cola diritto, sovra 'l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m'essalto.
I' vidi Eletra con molti compagni,
tra ' quai conobbi Ettor ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l'altra parte vidi 'l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che caccio Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia;
e solo, in parte, vidi 'l Saladino.
Poi ch'innalzai un poco piu le ciglia,
vidi 'l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid' io Socrate e Platone,
che 'nnanzi a li altri piu presso li stanno;
Democrito che 'l mondo a caso pone,
Diogenes, Anassagora e Tale,
Empedocles, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,
Diascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulio e Lino e Seneca morale;
Euclide geometra e Tolomeo,
Ipocrate, Avicenna e Galieno,
Averois, che 'l gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti a pieno,
pero che si mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.
La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l'aura che trema.
E vegno in parte ove non e che luca.
Inferno ? Canto V
Cosi discesi del cerchio primaio
giu nel secondo, che men loco cinghia
e tanto piu dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minos orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.
Dico che quando l'anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d'inferno e da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giu sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giu volte.
<<O tu che vieni al doloroso ospizio>>,
disse Minos a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio,
<<guarda com' entri e di cui tu ti fide;
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare! >>.
E 'l duca mio a lui: <<Perche pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi cosi cola dove si puote
cio che si vuole, e piu non dimandare>>.
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
la dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti e combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtu divina.
Intesi ch'a cosi fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
cosi quel fiato li spiriti mali
di qua, di la, di giu, di su li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di se lunga riga,
cosi vid' io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch'i' dissi: <<Maestro, chi son quelle
genti che l'aura nera si gastiga? >>.
<<La prima di color di cui novelle
tu vuo' saper>>, mi disse quelli allotta,
<<fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu si rotta,
che libito fe licito in sua legge,
per torre il biasmo in che era condotta.
Ell' e Semiramis, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.
L'altra e colei che s'ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi e Cleopatras lussuriosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi Paris, Tristano>>; e piu di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pieta mi giunse, e fui quasi smarrito.
<
che spandi di parlar si largo fiume? >>,
rispuos' io lui con vergognosa fronte.
<<O de li altri poeti onore e lume,
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu' io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi>>.
<<A te convien tenere altro viaggio>>,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
<<se vuo' campar d'esto loco selvaggio;
che questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;
e ha natura si malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha piu fame che pria.
Molti son li animali a cui s'ammoglia,
e piu saranno ancora, infin che 'l veltro
verra, che la fara morir con doglia.
Questi non cibera terra ne peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sara tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui mori la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccera per ogne villa,
fin che l'avra rimessa ne lo 'nferno,
la onde 'nvidia prima dipartilla.
Ond' io per lo tuo me' penso e discerno
che tu mi segui, e io saro tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perche speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a cio piu di me degna:
con lei ti lascero nel mio partire;
che quello imperador che la su regna,
perch' i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua citta per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi e la sua citta e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi elegge! >>.
E io a lui: <<Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
accio ch'io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni la dov' or dicesti,
si ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti>>.
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
Inferno ? Canto II
Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m'apparecchiava a sostener la guerra
si del cammino e si de la pietate,
che ritrarra la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
o mente che scrivesti cio ch'io vidi,
qui si parra la tua nobilitate.
Io cominciai: <<Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtu s'ell' e possente,
prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvio il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo ando, e fu sensibilmente.
Pero, se l'avversario d'ogne male
cortese i fu, pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale
non pare indegno ad omo d'intelletto;
ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
ne l'empireo ciel per padre eletto:
la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u' siede il successor del maggior Piero.
Per quest' andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d'elezione,
per recarne conforto a quella fede
ch'e principio a la via di salvazione.
Ma io, perche venirvi? o chi 'l concede?
Io non Enea, io non Paulo sono;
me degno a cio ne io ne altri 'l crede.
Per che, se del venire io m'abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono>>.
E qual e quei che disvuol cio che volle
e per novi pensier cangia proposta,
si che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec' io 'n quella oscura costa,
perche, pensando, consumai la 'mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.
<<S'i' ho ben la parola tua intesa>>,
rispuose del magnanimo quell' ombra,
<<l'anima tua e da viltade offesa;
la qual molte fiate l'omo ingombra
si che d'onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand' ombra.
Da questa tema accio che tu ti solve,
dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamo beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi piu che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durera quanto 'l mondo lontana,
l'amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia e impedito
si nel cammin, che volt' e per paura;
e temo che non sia gia si smarrito,
ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con cio c'ha mestieri al suo campare,
l'aiuta si ch'i' ne sia consolata.
I' son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando saro dinanzi al segnor mio,
di te mi lodero sovente a lui".
Tacette allora, e poi comincia' io:
"O donna di virtu sola per cui
l'umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,
tanto m'aggrada il tuo comandamento,
che l'ubidir, se gia fosse, m'e tardi;
piu non t'e uo' ch'aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l'ampio loco ove tornar tu ardi".
"Da che tu vuo' saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
"perch' i' non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
c'hanno potenza di fare altrui male;
de l'altre no, che non son paurose.
I' son fatta da Dio, sua merce, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
ne fiamma d'esto 'ncendio non m'assale.
Donna e gentil nel ciel che si compiange
di questo 'mpedimento ov' io ti mando,
si che duro giudicio la su frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse:--Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando--.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov' i' era,
che mi sedea con l'antica Rachele.
Disse:--Beatrice, loda di Dio vera,
che non soccorri quei che t'amo tanto,
ch'usci per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che 'l combatte
su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? --.
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com' io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giu del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch'onora te e quei ch'udito l'hanno".
Poscia che m'ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir piu presto.
E venni a te cosi com' ella volse:
d'inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che e? perche, perche restai,
perche tanta vilta nel core allette,
perche ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e 'l mio parlar tanto ben ti promette? >>.
Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec' io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch'i' cominciai come persona franca:
<<Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch'ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!
Tu m'hai con disiderio il cor disposto
si al venir con le parole tue,
ch'i' son tornato nel primo proposto.
Or va, ch'un sol volere e d'ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro>>.
Cosi li dissi; e poi che mosso fue,
intrai per lo cammino alto e silvestro.
Inferno ? Canto III
'Per me si va ne la citta dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e 'l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'.
Queste parole di colore oscuro
vid' io scritte al sommo d'una porta;
per ch'io: <<Maestro, il senso lor m'e duro>>.
Ed elli a me, come persona accorta:
<<Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne vilta convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto>>.
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond' io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d'ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s'aggira
sempre in quell' aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io ch'avea d'error la testa cinta,
dissi: <<Maestro, che e quel ch'i' odo?
e che gent' e che par nel duol si vinta? >>.
Ed elli a me: <<Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
ne fur fedeli a Dio, ma per se fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
ne lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli>>.
E io: <<Maestro, che e tanto greve
a lor che lamentar li fa si forte? >>.
Rispuose: <<Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita e tanto bassa,
che 'nvidiosi son d'ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa>>.
E io, che riguardai, vidi una 'nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d'ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venia si lunga tratta
di gente, ch'i' non averei creduto
che morte tanta n'avesse disfatta.
Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l'ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d'i cattivi,
a Dio spiacenti e a' nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch'eran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a' lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
E poi ch'a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d'un gran fiume;
per ch'io dissi: <<Maestro, or mi concedi
ch'i' sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer si pronte,
com' i' discerno per lo fioco lume>>.
Ed elli a me: <<Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d'Acheronte>>.
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no 'l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: <<Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i' vegno per menarvi a l'altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.
E tu che se' costi, anima viva,
partiti da cotesti che son morti>>.
Ma poi che vide ch'io non mi partiva,
disse: <<Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
piu lieve legno convien che ti porti>>.
E 'l duca lui: <<Caron, non ti crucciare:
vuolsi cosi cola dove si puote
cio che si vuole, e piu non dimandare>>.
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Ma quell' anime, ch'eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che 'nteser le parole crude.
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch'attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s'adagia.
Come d'autunno si levan le foglie
l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d'Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Cosi sen vanno su per l'onda bruna,
e avanti che sien di la discese,
anche di qua nuova schiera s'auna.
<<Figliuol mio>>, disse 'l maestro cortese,
<<quelli che muoion ne l'ira di Dio
tutti convegnon qui d'ogne paese;
e pronti sono a trapassar lo rio,
che la divina giustizia li sprona,
si che la tema si volve in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
e pero, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona>>.
Finito questo, la buia campagna
tremo si forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che baleno una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l'uom cui sonno piglia.
Inferno ? Canto IV
Ruppemi l'alto sonno ne la testa
un greve truono, si ch'io mi riscossi
come persona ch'e per forza desta;
e l'occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov' io fossi.
Vero e che 'n su la proda mi trovai
de la valle d'abisso dolorosa
che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.
Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa.
<<Or discendiam qua giu nel cieco mondo>>,
comincio il poeta tutto smorto.
<<Io saro primo, e tu sarai secondo>>.
E io, che del color mi fui accorto,
dissi: <<Come verro, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto? >>.
Ed elli a me: <<L'angoscia de le genti
che son qua giu, nel viso mi dipigne
quella pieta che tu per tema senti.
Andiam, che la via lunga ne sospigne>>.
Cosi si mise e cosi mi fe intrare
nel primo cerchio che l'abisso cigne.
Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l'aura etterna facevan tremare;
cio avvenia di duol sanza martiri,
ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
d'infanti e di femmine e di viri.
Lo buon maestro a me: <<Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo' che sappi, innanzi che piu andi,
ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,
non basta, perche non ebber battesmo,
ch'e porta de la fede che tu credi;
e s'e' furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio>>.
Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,
pero che gente di molto valore
conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.
<<Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore>>,
comincia' io per voler esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
<<uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato? >>.
E quei che 'ntese il mio parlar coverto,
rispuose: <<Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.
Trasseci l'ombra del primo parente,
d'Abel suo figlio e quella di Noe,
di Moise legista e ubidente;
Abraam patriarca e David re,
Israel con lo padre e co' suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fe,
e altri molti, e feceli beati.
E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati>>.
Non lasciavam l'andar perch' ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.
Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand' io vidi un foco
ch'emisperio di tenebre vincia.
Di lungi n'eravamo ancora un poco,
ma non si ch'io non discernessi in parte
ch'orrevol gente possedea quel loco.
<<O tu ch'onori scienzia e arte,
questi chi son c'hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte? >>.
E quelli a me: <<L'onrata nominanza
che di lor suona su ne la tua vita,
grazia acquista in ciel che si li avanza>>.
Intanto voce fu per me udita:
<<Onorate l'altissimo poeta;
l'ombra sua torna, ch'era dipartita>>.
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand' ombre a noi venire:
sembianz' avevan ne trista ne lieta.
Lo buon maestro comincio a dire:
<<Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre si come sire:
quelli e Omero poeta sovrano;
l'altro e Orazio satiro che vene;
Ovidio e 'l terzo, e l'ultimo Lucano.
Pero che ciascun meco si convene
nel nome che sono la voce sola,
fannomi onore, e di cio fanno bene>>.
Cosi vid' i' adunar la bella scola
di quel segnor de l'altissimo canto
che sovra li altri com' aquila vola.
Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e 'l mio maestro sorrise di tanto;
e piu d'onore ancora assai mi fenno,
ch'e' si mi fecer de la loro schiera,
si ch'io fui sesto tra cotanto senno.
Cosi andammo infino a la lumera,
parlando cose che 'l tacere e bello,
si com' era 'l parlar cola dov' era.
Venimmo al pie d'un nobile castello,
sette volte cerchiato d'alte mura,
difeso intorno d'un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.
Genti v'eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorita ne' lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci cosi da l'un de' canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
si che veder si potien tutti quanti.
Cola diritto, sovra 'l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m'essalto.
I' vidi Eletra con molti compagni,
tra ' quai conobbi Ettor ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l'altra parte vidi 'l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che caccio Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia;
e solo, in parte, vidi 'l Saladino.
Poi ch'innalzai un poco piu le ciglia,
vidi 'l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid' io Socrate e Platone,
che 'nnanzi a li altri piu presso li stanno;
Democrito che 'l mondo a caso pone,
Diogenes, Anassagora e Tale,
Empedocles, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,
Diascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulio e Lino e Seneca morale;
Euclide geometra e Tolomeo,
Ipocrate, Avicenna e Galieno,
Averois, che 'l gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti a pieno,
pero che si mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.
La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l'aura che trema.
E vegno in parte ove non e che luca.
Inferno ? Canto V
Cosi discesi del cerchio primaio
giu nel secondo, che men loco cinghia
e tanto piu dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minos orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.
Dico che quando l'anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d'inferno e da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giu sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giu volte.
<<O tu che vieni al doloroso ospizio>>,
disse Minos a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio,
<<guarda com' entri e di cui tu ti fide;
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare! >>.
E 'l duca mio a lui: <<Perche pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi cosi cola dove si puote
cio che si vuole, e piu non dimandare>>.
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
la dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti e combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtu divina.
Intesi ch'a cosi fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
cosi quel fiato li spiriti mali
di qua, di la, di giu, di su li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di se lunga riga,
cosi vid' io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch'i' dissi: <<Maestro, chi son quelle
genti che l'aura nera si gastiga? >>.
<<La prima di color di cui novelle
tu vuo' saper>>, mi disse quelli allotta,
<<fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu si rotta,
che libito fe licito in sua legge,
per torre il biasmo in che era condotta.
Ell' e Semiramis, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.
L'altra e colei che s'ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi e Cleopatras lussuriosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi Paris, Tristano>>; e piu di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pieta mi giunse, e fui quasi smarrito.
I' cominciai: <<Poeta, volontieri
parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
e paion si al vento esser leggeri>>.
Ed elli a me: <<Vedrai quando saranno
piu presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno>>.
Si tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: <<O anime affannate,
venite a noi parlar, s'altri nol niega! >>.
Quali colombe dal disio chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere, dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov' e Dido,
a noi venendo per l'aere maligno,
si forte fu l'affettuoso grido.
<<O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l'universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c'hai pieta del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui.
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer si forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense>>.
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand' io intesi quell' anime offense,
china' il viso, e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: <<Che pense? >>.
Quando rispuosi, cominciai: <<Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
meno costoro al doloroso passo! >>.
Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
e cominciai: <<Francesca, i tuoi martiri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri? >>.
E quella a me: <<Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e cio sa 'l tuo dottore.
Ma s'a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
diro come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per piu fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi bascio tutto tremante.
