Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l'ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s'intoppa.
con l'ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s'intoppa.
Dante - La Divina Commedia
Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
che solo a cio la mia mente rifiede>>.
Allor mi disse: <<Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu--quando Grecia fu di maschi vota,
si ch'a pena rimaser per le cune--
augure, e diede 'l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune.
Euripilo ebbe nome, e cosi 'l canta
l'alta mia tragedia in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.
Quell' altro che ne' fianchi e cosi poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe 'l gioco.
Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
ch'avere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente.
Vedi le triste che lasciaron l'ago,
la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine;
fecer malie con erbe e con imago.
Ma vienne omai, che gia tiene 'l confine
d'amendue li emisperi e tocca l'onda
sotto Sobilia Caino e le spine;
e gia iernotte fu la luna tonda:
ben ten de' ricordar, che non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda>>.
Si mi parlava, e andavamo introcque.
Inferno ? Canto XXI
Cosi di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedia cantar non cura,
venimmo; e tenavamo 'l colmo, quando
restammo per veder l'altra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura.
Quale ne l'arzana de' Viniziani
bolle l'inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
che navicar non ponno--in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che piu viaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa--:
tal, non per foco ma per divin' arte,
bollia la giuso una pegola spessa,
che 'nviscava la ripa d'ogne parte.
I' vedea lei, ma non vedea in essa
mai che le bolle che 'l bollor levava,
e gonfiar tutta, e riseder compressa.
Mentr' io la giu fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo <<Guarda, guarda! >>,
mi trasse a se del loco dov' io stava.
Allor mi volsi come l'uom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire
e cui paura subita sgagliarda,
che, per veder, non indugia 'l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire.
Ahi quant' elli era ne l'aspetto fero!
e quanto mi parea ne l'atto acerbo,
con l'ali aperte e sovra i pie leggero!
L'omero suo, ch'era aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo l'anche,
e quei tenea de' pie ghermito 'l nerbo.
Del nostro ponte disse: <<O Malebranche,
ecco un de li anzian di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch'i' torno per anche
a quella terra, che n'e ben fornita:
ogn' uom v'e barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita>>.
La giu 'l butto, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.
Quel s'attuffo, e torno su convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: <<Qui non ha loco il Santo Volto!
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
Pero, se tu non vuo' di nostri graffi,
non far sopra la pegola soverchio>>.
Poi l'addentar con piu di cento raffi,
disser: <<Coverto convien che qui balli,
si che, se puoi, nascosamente accaffi>>.
Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perche non galli.
Lo buon maestro <<Accio che non si paia
che tu ci sia>>, mi disse, <<giu t'acquatta
dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia;
e per nulla offension che mi sia fatta,
non temer tu, ch'i' ho le cose conte,
perch' altra volta fui a tal baratta>>.
Poscia passo di la dal co del ponte;
e com' el giunse in su la ripa sesta,
mestier li fu d'aver sicura fronte.
Con quel furore e con quella tempesta
ch'escono i cani a dosso al poverello
che di subito chiede ove s'arresta,
usciron quei di sotto al ponticello,
e volser contra lui tutt' i runcigli;
ma el grido: <<Nessun di voi sia fello!
Innanzi che l'uncin vostro mi pigli,
traggasi avante l'un di voi che m'oda,
e poi d'arruncigliarmi si consigli>>.
Tutti gridaron: <<Vada Malacoda! >>;
per ch'un si mosse--e li altri stetter fermi--
e venne a lui dicendo: <<Che li approda? >>.
<<Credi tu, Malacoda, qui vedermi
esser venuto>>, disse 'l mio maestro,
<<sicuro gia da tutti vostri schermi,
sanza voler divino e fato destro?
Lascian' andar, che nel cielo e voluto
ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro>>.
Allor li fu l'orgoglio si caduto,
ch'e' si lascio cascar l'uncino a' piedi,
e disse a li altri: <<Omai non sia feruto>>.
E 'l duca mio a me: <<O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
sicuramente omai a me ti riedi>>.
Per ch'io mi mossi e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
si ch'io temetti ch'ei tenesser patto;
cosi vid' io gia temer li fanti
ch'uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo se tra nemici cotanti.
I' m'accostai con tutta la persona
lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi
da la sembianza lor ch'era non buona.
Ei chinavan li raffi e <<Vuo' che 'l tocchi>>,
diceva l'un con l'altro, <<in sul groppone? >>.
E rispondien: <<Si, fa che gliel' accocchi>>.
Ma quel demonio che tenea sermone
col duca mio, si volse tutto presto
e disse: <<Posa, posa, Scarmiglione! >>.
Poi disse a noi: <<Piu oltre andar per questo
iscoglio non si puo, pero che giace
tutto spezzato al fondo l'arco sesto.
E se l'andare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso e un altro scoglio che via face.
Ier, piu oltre cinqu' ore che quest' otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compie che qui la via fu rotta.
Io mando verso la di questi miei
a riguardar s'alcun se ne sciorina;
gite con lor, che non saranno rei>>.
<<Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina>>,
comincio elli a dire, <<e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina.
Libicocco vegn' oltre e Draghignazzo,
Ciriatto sannuto e Graffiacane
e Farfarello e Rubicante pazzo.
Cercate 'ntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a l'altro scheggio
che tutto intero va sovra le tane>>.
<<Ome, maestro, che e quel ch'i' veggio? >>,
diss' io, <<deh, sanza scorta andianci soli,
se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio.
Se tu se' si accorto come suoli,
non vedi tu ch'e' digrignan li denti
e con le ciglia ne minaccian duoli? >>.
Ed elli a me: <<Non vo' che tu paventi;
lasciali digrignar pur a lor senno,
ch'e' fanno cio per li lessi dolenti>>.
Per l'argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta.
Inferno ? Canto XXII
Io vidi gia cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;
quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;
ne gia con si diversa cennamella
cavalier vidi muover ne pedoni,
ne nave a segno di terra o di stella.
Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.
Pur a la pegola era la mia 'ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
e de la gente ch'entro v'era incesa.
Come i dalfini, quando fanno segno
a' marinar con l'arco de la schiena
che s'argomentin di campar lor legno,
talor cosi, ad alleggiar la pena,
mostrav' alcun de' peccatori 'l dosso
e nascondea in men che non balena.
E come a l'orlo de l'acqua d'un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
si che celano i piedi e l'altro grosso,
si stavan d'ogne parte i peccatori;
ma come s'appressava Barbariccia,
cosi si ritraen sotto i bollori.
I' vidi, e anco il cor me n'accapriccia,
uno aspettar cosi, com' elli 'ncontra
ch'una rana rimane e l'altra spiccia;
e Graffiacan, che li era piu di contra,
li arrunciglio le 'mpegolate chiome
e trassel su, che mi parve una lontra.
I' sapea gia di tutti quanti 'l nome,
si li notai quando fuorono eletti,
e poi ch'e' si chiamaro, attesi come.
<<O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, si che tu lo scuoi! >>,
gridavan tutti insieme i maladetti.
E io: <<Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi e lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi>>.
Lo duca mio li s'accosto allato;
domandollo ond' ei fosse, e quei rispuose:
<<I' fui del regno di Navarra nato.
Mia madre a servo d'un segnor mi puose,
che m'avea generato d'un ribaldo,
distruggitor di se e di sue cose.
Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
di ch'io rendo ragione in questo caldo>>.
E Ciriatto, a cui di bocca uscia
d'ogne parte una sanna come a porco,
li fe sentir come l'una sdruscia.
Tra male gatte era venuto 'l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia
e disse: <<State in la, mentr' io lo 'nforco>>.
E al maestro mio volse la faccia;
<<Domanda>>, disse, <<ancor, se piu disii
saper da lui, prima ch'altri 'l disfaccia>>.
Lo duca dunque: <<Or di: de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece? >>. E quelli: <<I' mi partii,
poco e, da un che fu di la vicino.
Cosi foss' io ancor con lui coperto,
ch'i' non temerei unghia ne uncino! >>.
E Libicocco <<Troppo avem sofferto>>,
disse; e preseli 'l braccio col runciglio,
si che, stracciando, ne porto un lacerto.
Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde 'l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio.
Quand' elli un poco rappaciati fuoro,
a lui, ch'ancor mirava sua ferita,
domando 'l duca mio sanza dimoro:
<<Chi fu colui da cui mala partita
di' che facesti per venire a proda? >>.
Ed ei rispuose: <<Fu frate Gomita,
quel di Gallura, vasel d'ogne froda,
ch'ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fe si lor, che ciascun se ne loda.
Danar si tolse e lasciolli di piano,
si com' e' dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano.
Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche.
Ome, vedete l'altro che digrigna;
i' direi anche, ma i' temo ch'ello
non s'apparecchi a grattarmi la tigna>>.
E 'l gran proposto, volto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
disse: <<Fatti 'n costa, malvagio uccello! >>.
<<Se voi volete vedere o udire>>,
ricomincio lo spaurato appresso,
<<Toschi o Lombardi, io ne faro venire;
ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
si ch'ei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso,
per un ch'io son, ne faro venir sette
quand' io suffolero, com' e nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette>>.
Cagnazzo a cotal motto levo 'l muso,
crollando 'l capo, e disse: <<Odi malizia
ch'elli ha pensata per gittarsi giuso! >>.
Ond' ei, ch'avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: <<Malizioso son io troppo,
quand' io procuro a' mia maggior trestizia>>.
Alichin non si tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: <<Se tu ti cali,
io non ti verro dietro di gualoppo,
ma battero sovra la pece l'ali.
Lascisi 'l collo, e sia la ripa scudo,
a veder se tu sol piu di noi vali>>.
O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l'altra costa li occhi volse,
quel prima, ch'a cio fare era piu crudo.
Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermo le piante a terra, e in un punto
salto e dal proposto lor si sciolse.
Di che ciascun di colpa fu compunto,
ma quei piu che cagion fu del difetto;
pero si mosse e grido: <<Tu se' giunto! >>.
Ma poco i valse: che l'ali al sospetto
non potero avanzar; quelli ando sotto,
e quei drizzo volando suso il petto:
non altrimenti l'anitra di botto,
quando 'l falcon s'appressa, giu s'attuffa,
ed ei ritorna su crucciato e rotto.
Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa;
e come 'l barattier fu disparito,
cosi volse li artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra 'l fosso ghermito.
Ma l'altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno.
Lo caldo sghermitor subito fue;
ma pero di levarsi era neente,
si avieno inviscate l'ali sue.
Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fe volar da l'altra costa
con tutt' i raffi, e assai prestamente
di qua, di la discesero a la posta;
porser li uncini verso li 'mpaniati,
ch'eran gia cotti dentro da la crosta.
E noi lasciammo lor cosi 'mpacciati.
Inferno ? Canto XXIII
Taciti, soli, sanza compagnia
n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo,
come frati minor vanno per via.
Volt' era in su la favola d'Isopo
lo mio pensier per la presente rissa,
dov' el parlo de la rana e del topo;
che piu non si pareggia 'mo' e 'issa'
che l'un con l'altro fa, se ben s'accoppia
principio e fine con la mente fissa.
E come l'un pensier de l'altro scoppia,
cosi nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fe doppia.
Io pensava cosi: 'Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa
si fatta, ch'assai credo che lor noi.
Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa,
ei ne verranno dietro piu crudeli
che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa'.
Gia mi sentia tutti arricciar li peli
de la paura e stava in dietro intento,
quand' io dissi: <<Maestro, se non celi
te e me tostamente, i' ho pavento
d'i Malebranche. Noi li avem gia dietro;
io li 'magino si, che gia li sento>>.
E quei: <<S'i' fossi di piombato vetro,
l'imagine di fuor tua non trarrei
piu tosto a me, che quella dentro 'mpetro.
Pur mo venieno i tuo' pensier tra ' miei,
con simile atto e con simile faccia,
si che d'intrambi un sol consiglio fei.
S'elli e che si la destra costa giaccia,
che noi possiam ne l'altra bolgia scendere,
noi fuggirem l'imaginata caccia>>.
Gia non compie di tal consiglio rendere,
ch'io li vidi venir con l'ali tese
non molto lungi, per volerne prendere.
Lo duca mio di subito mi prese,
come la madre ch'al romore e desta
e vede presso a se le fiamme accese,
che prende il figlio e fugge e non s'arresta,
avendo piu di lui che di se cura,
tanto che solo una camiscia vesta;
e giu dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia,
che l'un de' lati a l'altra bolgia tura.
Non corse mai si tosto acqua per doccia
a volger ruota di molin terragno,
quand' ella piu verso le pale approccia,
come 'l maestro mio per quel vivagno,
portandosene me sovra 'l suo petto,
come suo figlio, non come compagno.
A pena fuoro i pie suoi giunti al letto
del fondo giu, ch'e' furon in sul colle
sovresso noi; ma non li era sospetto:
che l'alta provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
poder di partirs' indi a tutti tolle.
La giu trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta.
Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
che in Clugni per li monaci fassi.
Di fuor dorate son, si ch'elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia.
Oh in etterno faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
con loro insieme, intenti al tristo pianto;
ma per lo peso quella gente stanca
venia si pian, che noi eravam nuovi
di compagnia ad ogne mover d'anca.
Per ch'io al duca mio: <<Fa che tu trovi
alcun ch'al fatto o al nome si conosca,
e li occhi, si andando, intorno movi>>.
E un che 'ntese la parola tosca,
di retro a noi grido: <<Tenete i piedi,
voi che correte si per l'aura fosca!
Forse ch'avrai da me quel che tu chiedi>>.
Onde 'l duca si volse e disse: <<Aspetta,
e poi secondo il suo passo procedi>>.
Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
de l'animo, col viso, d'esser meco;
ma tardavali 'l carco e la via stretta.
Quando fuor giunti, assai con l'occhio bieco
mi rimiraron sanza far parola;
poi si volsero in se, e dicean seco:
<<Costui par vivo a l'atto de la gola;
e s'e' son morti, per qual privilegio
vanno scoperti de la grave stola? >>.
Poi disser me: <<O Tosco, ch'al collegio
de l'ipocriti tristi se' venuto,
dir chi tu se' non avere in dispregio>>.
E io a loro: <<I' fui nato e cresciuto
sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa,
e son col corpo ch'i' ho sempre avuto.
Ma voi chi siete, a cui tanto distilla
quant' i' veggio dolor giu per le guance?
e che pena e in voi che si sfavilla? >>.
E l'un rispuose a me: <<Le cappe rance
son di piombo si grosse, che li pesi
fan cosi cigolar le lor bilance.
Frati godenti fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi
come suole esser tolto un uom solingo,
per conservar sua pace; e fummo tali,
ch'ancor si pare intorno dal Gardingo>>.
Io cominciai: <<O frati, i vostri mali . . . >>;
ma piu non dissi, ch'a l'occhio mi corse
un, crucifisso in terra con tre pali.
Quando mi vide, tutto si distorse,
soffiando ne la barba con sospiri;
e 'l frate Catalan, ch'a cio s'accorse,
mi disse: <<Quel confitto che tu miri,
consiglio i Farisei che convenia
porre un uom per lo popolo a' martiri.
Attraversato e, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed e mestier ch'el senta
qualunque passa, come pesa, pria.
E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio
che fu per li Giudei mala sementa>>.
Allor vid' io maravigliar Virgilio
sovra colui ch'era disteso in croce
tanto vilmente ne l'etterno essilio.
Poscia drizzo al frate cotal voce:
<<Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
s'a la man destra giace alcuna foce
onde noi amendue possiamo uscirci,
sanza costrigner de li angeli neri
che vegnan d'esto fondo a dipartirci>>.
Rispuose adunque: <<Piu che tu non speri
s'appressa un sasso che da la gran cerchia
si move e varca tutt' i vallon feri,
salvo che 'n questo e rotto e nol coperchia;
montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia>>.
Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: <<Mal contava la bisogna
colui che i peccator di qua uncina>>.
E 'l frate: <<Io udi' gia dire a Bologna
del diavol vizi assai, tra ' quali udi'
ch'elli e bugiardo, e padre di menzogna>>.
Appresso il duca a gran passi sen gi,
turbato un poco d'ira nel sembiante;
ond' io da li 'ncarcati mi parti'
dietro a le poste de le care piante.
Inferno ? Canto XXIV
In quella parte del giovanetto anno
che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra
e gia le notti al mezzo di sen vanno,
quando la brina in su la terra assempra
l'imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra,
lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond' ei si batte l'anca,
ritorna in casa, e qua e la si lagna,
come 'l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna,
veggendo 'l mondo aver cangiata faccia
in poco d'ora, e prende suo vincastro
e fuor le pecorelle a pascer caccia.
Cosi mi fece sbigottir lo mastro
quand' io li vidi si turbar la fronte,
e cosi tosto al mal giunse lo 'mpiastro;
che, come noi venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
dolce ch'io vidi prima a pie del monte.
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio.
E come quei ch'adopera ed estima,
che sempre par che 'nnanzi si proveggia,
cosi, levando me su ver' la cima
d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia
dicendo: <<Sovra quella poi t'aggrappa;
ma tenta pria s'e tal ch'ella ti reggia>>.
Non era via da vestito di cappa,
che noi a pena, ei lieve e io sospinto,
potavam su montar di chiappa in chiappa.
E se non fosse che da quel precinto
piu che da l'altro era la costa corta,
non so di lui, ma io sarei ben vinto.
Ma perche Malebolge inver' la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta
che l'una costa surge e l'altra scende;
noi pur venimmo al fine in su la punta
onde l'ultima pietra si scoscende.
La lena m'era del polmon si munta
quand' io fui su, ch'i' non potea piu oltre,
anzi m'assisi ne la prima giunta.
<<Omai convien che tu cosi ti spoltre>>,
disse 'l maestro; <<che, seggendo in piuma,
in fama non si vien, ne sotto coltre;
sanza la qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di se lascia,
qual fummo in aere e in acqua la schiuma.
E pero leva su; vinci l'ambascia
con l'animo che vince ogne battaglia,
se col suo grave corpo non s'accascia.
Piu lunga scala convien che si saglia;
non basta da costoro esser partito.
Se tu mi 'ntendi, or fa si che ti vaglia>>.
Leva'mi allor, mostrandomi fornito
meglio di lena ch'i' non mi sentia,
e dissi: <<Va, ch'i' son forte e ardito>>.
Su per lo scoglio prendemmo la via,
ch'era ronchioso, stretto e malagevole,
ed erto piu assai che quel di pria.
Parlando andava per non parer fievole;
onde una voce usci de l'altro fosso,
a parole formar disconvenevole.
Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso
fossi de l'arco gia che varca quivi;
ma chi parlava ad ire parea mosso.
Io era volto in giu, ma li occhi vivi
non poteano ire al fondo per lo scuro;
per ch'io: <<Maestro, fa che tu arrivi
da l'altro cinghio e dismontiam lo muro;
che, com' i' odo quinci e non intendo,
cosi giu veggio e neente affiguro>>.
<<Altra risposta>>, disse, <<non ti rendo
se non lo far; che la dimanda onesta
si de' seguir con l'opera tacendo>>.
Noi discendemmo il ponte da la testa
dove s'aggiugne con l'ottava ripa,
e poi mi fu la bolgia manifesta:
e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di si diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa.
Piu non si vanti Libia con sua rena;
che se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,
ne tante pestilenzie ne si ree
mostro gia mai con tutta l'Etiopia
ne con cio che di sopra al Mar Rosso ee.
Tra questa cruda e tristissima copia
correan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:
con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate.
Ed ecco a un ch'era da nostra proda,
s'avvento un serpente che 'l trafisse
la dove 'l collo a le spalle s'annoda.
Ne O si tosto mai ne I si scrisse,
com' el s'accese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra si distrutto,
la polver si raccolse per se stessa
e 'n quel medesmo ritorno di butto.
Cosi per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;
erba ne biado in sua vita non pasce,
ma sol d'incenso lagrime e d'amomo,
e nardo e mirra son l'ultime fasce.
E qual e quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch'a terra il tira,
o d'altra oppilazion che lega l'omo,
quando si leva, che 'ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch'elli ha sofferta, e guardando sospira:
tal era 'l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant' e severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!
Lo duca il domando poi chi ello era;
per ch'ei rispuose: <<Io piovvi di Toscana,
poco tempo e, in questa gola fiera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
si come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana>>.
E io al duca: <<Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giu 'l pinse;
ch'io 'l vidi uomo di sangue e di crucci>>.
E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse,
ma drizzo verso me l'animo e 'l volto,
e di trista vergogna si dipinse;
poi disse: <<Piu mi duol che tu m'hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l'altra vita tolto.
Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giu son messo tanto perch' io fui
ladro a la sagrestia d'i belli arredi,
e falsamente gia fu apposto altrui.
Ma perche di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da' luoghi bui,
apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
Pistoia in pria d'i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch'e di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetuosa e agra
sovra Campo Picen fia combattuto;
ond' ei repente spezzera la nebbia,
si ch'ogne Bianco ne sara feruto.
E detto l'ho perche doler ti debbia! >>.
Inferno ? Canto XXV
Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzo con amendue le fiche,
gridando: <<Togli, Dio, ch'a te le squadro! >>.
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch' una li s'avvolse allora al collo,
come dicesse 'Non vo' che piu diche';
e un'altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo se stessa si dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.
Ahi Pistoia, Pistoia, che non stanzi
d'incenerarti si che piu non duri,
poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?
Per tutt' i cerchi de lo 'nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giu da' muri.
El si fuggi che non parlo piu verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: <<Ov' e, ov' e l'acerbo? >>.
Maremma non cred' io che tante n'abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia.
Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l'ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s'intoppa.
Lo mio maestro disse: <<Questi e Caco,
che, sotto 'l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco.
Non va co' suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch'elli ebbe a vicino;
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d'Ercule, che forse
gliene die cento, e non senti le diece>>.
Mentre che si parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de' quai ne io ne 'l duca mio s'accorse,
se non quando gridar: <<Chi siete voi? >>;
per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi.
Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l'un nomar un altro convenette,
dicendo: <<Cianfa dove fia rimaso? >>;
per ch'io, accio che 'l duca stesse attento,
mi puosi 'l dito su dal mento al naso.
Se tu se' or, lettore, a creder lento
cio ch'io diro, non sara maraviglia,
che io che 'l vidi, a pena il mi consento.
Com' io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei pie si lancia
dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.
Co' pie di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterior le braccia prese;
poi li addento e l'una e l'altra guancia;
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra 'mbedue
e dietro per le ren su la ritese.
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber si, come l'orribil fiera
per l'altrui membra avviticchio le sue.
Poi s'appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
ne l'un ne l'altro gia parea quel ch'era:
come procede innanzi da l'ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non e nero ancora e 'l bianco more.
Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno
gridava: <<Ome, Agnel, come ti muti!
Vedi che gia non se' ne due ne uno>>.
Gia eran li due capi un divenuti,
quando n'apparver due figure miste
in una faccia, ov' eran due perduti.
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso
divenner membra che non fuor mai viste.
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l'imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo.
Come 'l ramarro sotto la gran fersa
dei di canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa,
si pareva, venendo verso l'epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe;
e quella parte onde prima e preso
nostro alimento, a l'un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso.
Lo trafitto 'l miro, ma nulla disse;
anzi, co' pie fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l'assalisse.
Elli 'l serpente e quei lui riguardava;
l'un per la piaga e l'altro per la bocca
fummavan forte, e 'l fummo si scontrava.
Taccia Lucano ormai la dov' e' tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch'or si scocca.
Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio,
che se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo 'nvidio;
che due nature mai a fronte a fronte
non trasmuto si ch'amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.
Insieme si rispuosero a tai norme,
che 'l serpente la coda in forca fesse,
e 'l feruto ristrinse insieme l'orme.
Le gambe con le cosce seco stesse
s'appiccar si, che 'n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse.
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva la, e la sua pelle
si facea molle, e quella di la dura.
Io vidi intrar le braccia per l'ascelle,
e i due pie de la fiera, ch'eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li pie di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l'uom cela,
e 'l misero del suo n'avea due porti.
Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela
di color novo, e genera 'l pel suso
per l'una parte e da l'altra il dipela,
l'un si levo e l'altro cadde giuso,
non torcendo pero le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso.
Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie,
e di troppa matera ch'in la venne
uscir li orecchi de le gote scempie;
cio che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fe naso a la faccia
e le labbra ingrosso quanto convenne.
Quel che giacea, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia;
e la lingua, ch'avea unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta.
L'anima ch'era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l'altro dietro a lui parlando sputa.
Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l'altro: <<I' vo' che Buoso corra,
com' ho fatt' io, carpon per questo calle>>.
Cosi vid' io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novita se fior la penna abborra.
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l'animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato;
l'altr' era quel che tu, Gaville, piagni.
Inferno ? Canto XXVI
Godi, Fiorenza, poi che se' si grande
che per mare e per terra batti l'ali,
e per lo 'nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.
E se gia fosse, non saria per tempo.
Cosi foss' ei, da che pur esser dee!
che piu mi gravera, com' piu m'attempo.
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n'avea fatto iborni a scender pria,
rimonto 'l duca mio e trasse mee;
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio
lo pie sanza la man non si spedia.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a cio ch'io vidi,
e piu lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio,
perche non corra che virtu nol guidi;
si che, se stella bona o miglior cosa
m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi.
Quante 'l villan ch'al poggio si riposa,
nel tempo che colui che 'l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giu per la vallea,
forse cola dov' e' vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
l'ottava bolgia, si com' io m'accorsi
tosto che fui la 've 'l fondo parea.
E qual colui che si vengio con li orsi
vide 'l carro d'Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea si con li occhi seguire,
ch'el vedesse altro che la fiamma sola,
si come nuvoletta, in su salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, che nessuna mostra 'l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra 'l ponte a veder surto,
si che s'io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giu sanz' esser urto.
E 'l duca che mi vide tanto atteso,
disse: <<Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch'elli e inceso>>.
<<Maestro mio>>, rispuos' io, <<per udirti
son io piu certo; ma gia m'era avviso
che cosi fosse, e gia voleva dirti:
chi e 'n quel foco che vien si diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov' Eteocle col fratel fu miso? >>.
Rispuose a me: <<La dentro si martira
Ulisse e Diomede, e cosi insieme
a la vendetta vanno come a l'ira;
e dentro da la lor fiamma si geme
l'agguato del caval che fe la porta
onde usci de' Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l'arte per che, morta,
Deidamia ancor si duol d'Achille,
e del Palladio pena vi si porta>>.
<<S'ei posson dentro da quelle faville
parlar>>, diss' io, <<maestro, assai ten priego
e ripriego, che 'l priego vaglia mille,
che non mi facci de l'attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver' lei mi piego! >>.
Ed elli a me: <<La tua preghiera e degna
di molta loda, e io pero l'accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto
cio che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi,
perch' e' fuor greci, forse del tuo detto>>.
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
<<O voi che siete due dentro ad un foco,
s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,
s'io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l'un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi>>.
Lo maggior corno de la fiamma antica
comincio a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e la menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gitto voce di fuori e disse: <<Quando
mi diparti' da Circe, che sottrasse
me piu d'un anno la presso a Gaeta,
prima che si Enea la nomasse,
ne dolcezza di figlio, ne la pieta
del vecchio padre, ne 'l debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,
vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna.
Io e ' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov' Ercule segno li suoi riguardi
accio che l'uom piu oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l'altra gia m'avea lasciata Setta.
"O frati", dissi "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'e del rimanente
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".
Li miei compagni fec' io si aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle gia de l'altro polo
vedea la notte, e 'l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,
quando n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto torno in pianto;
che de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fe girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giu, com' altrui piacque,
infin che 'l mar fu sovra noi richiuso>>.
Inferno ? Canto XXVII
Gia era dritta in su la fiamma e queta
per non dir piu, e gia da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,
quand' un'altra, che dietro a lei venia,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n'uscia.
Come 'l bue cicilian che mugghio prima
col pianto di colui, e cio fu dritto,
che l'avea temperato con sua lima,
mugghiava con la voce de l'afflitto,
si che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto;
cosi, per non aver via ne forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertian le parole grame.
Ma poscia ch'ebber colto lor viaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,
udimmo dire: <<O tu a cu' io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo "Istra ten va, piu non t'adizzo",
perch' io sia giunto forse alquanto tardo,
non t'incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!
Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se' di quella dolce terra
latina ond' io mia colpa tutta reco,
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
ch'io fui d'i monti la intra Orbino
e 'l giogo di che Tever si diserra>>.
Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tento di costa,
dicendo: <<Parla tu; questi e latino>>.
E io, ch'avea gia pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
<<O anima che se' la giu nascosta,
Romagna tua non e, e non fu mai,
sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni;
ma 'n palese nessuna or vi lasciai.
Ravenna sta come stata e molt' anni:
l'aguglia da Polenta la si cova,
si che Cervia ricuopre co' suoi vanni.
La terra che fe gia la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.
E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
la dove soglion fan d'i denti succhio.
Le citta di Lamone e di Santerno
conduce il lioncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.
E quella cu' il Savio bagna il fianco,
cosi com' ella sie' tra 'l piano e 'l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.
Ora chi se', ti priego che ne conte;
non esser duro piu ch'altri sia stato,
se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte>>.
Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l'aguta punta mosse
di qua, di la, e poi die cotal fiato:
<<S'i' credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza piu scosse;
ma pero che gia mai di questo fondo
non torno vivo alcun, s'i' odo il vero,
sanza tema d'infamia ti rispondo.
Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, si cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venia intero,
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda! ,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che m'intenda.
Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe
che la madre mi die, l'opere mie
non furon leonine, ma di volpe.
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e si menai lor arte,
ch'al fine de la terra il suono uscie.
Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,
cio che pria mi piacea, allor m'increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
Lo principe d'i novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin ne con Giudei,
che ciascun suo nimico era cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
ne mercatante in terra di Soldano,
ne sommo officio ne ordini sacri
guardo in se, ne in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti piu macri.
Ma come Costantin chiese Silvestro
d'entro Siratti a guerir de la lebbre,
cosi mi chiese questi per maestro
a guerir de la sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
perche le sue parole parver ebbre.
E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti;
finor t'assolvo, e tu m'insegna fare
si come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss' io serrare e diserrare,
come tu sai; pero son due le chiavi
che 'l mio antecessor non ebbe care".
Allor mi pinser li argomenti gravi
la 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio,
e dissi: "Padre, da che tu mi lavi
di quel peccato ov' io mo cader deggio,
lunga promessa con l'attender corto
ti fara triunfar ne l'alto seggio".
Francesco venne poi, com' io fu' morto,
per me; ma un d'i neri cherubini
li disse: "Non portar: non mi far torto.
Venir se ne dee giu tra ' miei meschini
perche diede 'l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a' crini;
ch'assolver non si puo chi non si pente,
ne pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente".
Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: "Forse
tu non pensavi ch'io loico fossi! ".
A Minos mi porto; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,
disse: "Questi e d'i rei del foco furo";
per ch'io la dove vedi son perduto,
e si vestito, andando, mi rancuro>>.
Quand' elli ebbe 'l suo dir cosi compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo 'l corno aguto.
Noi passamm' oltre, e io e 'l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l'altr' arco
che cuopre 'l fosso in che si paga il fio
a quei che scommettendo acquistan carco.
Inferno ? Canto XXVIII
Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch'i' ora vidi, per narrar piu volte?
Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
c'hanno a tanto comprender poco seno.
S'el s'aunasse ancor tutta la gente
che gia, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente
per li Troiani e per la lunga guerra
che de l'anella fe si alte spoglie,
come Livio scrive, che non erra,
con quella che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie
a Ceperan, la dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e la da Tagliacozzo,
dove sanz' arme vinse il vecchio Alardo;
e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, d'aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.
Gia veggia, per mezzul perdere o lulla,
com' io vidi un, cosi non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e 'l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder m'attacco,
guardommi e con le man s'aperse il petto,
dicendo: <<Or vedi com' io mi dilacco!
vedi come storpiato e Maometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Ali,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e pero son fessi cosi.
Un diavolo e qua dietro che n'accisma
si crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,
quand' avem volta la dolente strada;
pero che le ferite son richiuse
prima ch'altri dinanzi li rivada.
Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse,
forse per indugiar d'ire a la pena
ch'e giudicata in su le tue accuse? >>.
<<Ne morte 'l giunse ancor, ne colpa 'l mena>>,
rispuose 'l mio maestro, <<a tormentarlo;
ma per dar lui esperienza piena,
a me, che morto son, convien menarlo
per lo 'nferno qua giu di giro in giro;
e quest' e ver cosi com' io ti parlo>>.
Piu fuor di cento che, quando l'udiro,
s'arrestaron nel fosso a riguardarmi
per maraviglia, obliando il martiro.
<<Or di a fra Dolcin dunque che s'armi,
tu che forse vedra' il sole in breve,
s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,
si di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch'altrimenti acquistar non saria leve>>.
Poi che l'un pie per girsene sospese,
Maometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.
Un altro, che forata avea la gola
e tronco 'l naso infin sotto le ciglia,
e non avea mai ch'una orecchia sola,
ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri apri la canna,
ch'era di fuor d'ogne parte vermiglia,
e disse: <<O tu cui colpa non condanna
e cu' io vidi su in terra latina,
se troppa simiglianza non m'inganna,
rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabo dichina.
E fa saper a' due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l'antiveder qui non e vano,
gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d'un tiranno fello.
Tra l'isola di Cipri e di Maiolica
non vide mai si gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica.
Quel traditor che vede pur con l'uno,
e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno,
fara venirli a parlamento seco;
poi fara si, ch'al vento di Focara
non sara lor mestier voto ne preco>>.
E io a lui: <<Dimostrami e dichiara,
se vuo' ch'i' porti su di te novella,
chi e colui da la veduta amara>>.
Allor puose la mano a la mascella
d'un suo compagno e la bocca li aperse,
gridando: <<Questi e desso, e non favella.
Questi, scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che 'l fornito
sempre con danno l'attender sofferse>>.
Oh quanto mi pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza
Curio, ch'a dir fu cosi ardito!
E un ch'avea l'una e l'altra man mozza,
levando i moncherin per l'aura fosca,
si che 'l sangue facea la faccia sozza,
grido: <<Ricordera'ti anche del Mosca,
che disse, lasso! , "Capo ha cosa fatta",
che fu mal seme per la gente tosca>>.
E io li aggiunsi: <<E morte di tua schiatta>>;
per ch'elli, accumulando duol con duolo,
sen gio come persona trista e matta.
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa ch'io avrei paura,
sanza piu prova, di contarla solo;
se non che coscienza m'assicura,
la buona compagnia che l'uom francheggia
sotto l'asbergo del sentirsi pura.
Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia,
un busto sanza capo andar si come
andavan li altri de la trista greggia;
e 'l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: <<Oh me! >>.
Di se facea a se stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com' esser puo, quei sa che si governa.
Quando diritto al pie del ponte fue,
levo 'l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue,
che fuoro: <<Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s'alcuna e grande come questa.
E perche tu di me novella porti,
sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma' conforti.
Io feci il padre e 'l figlio in se ribelli;
Achitofel non fe piu d'Absalone
e di David coi malvagi punzelli.
Perch' io parti' cosi giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso! ,
dal suo principio ch'e in questo troncone.
Cosi s'osserva in me lo contrapasso>>.
Inferno ? Canto XXIX
La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie si inebriate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.
Ma Virgilio mi disse: <<Che pur guate?
perche la vista tua pur si soffolge
la giu tra l'ombre triste smozzicate?
Tu non hai fatto si a l'altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.
E gia la luna e sotto i nostri piedi;
lo tempo e poco omai che n'e concesso,
e altro e da veder che tu non vedi>>.
<<Se tu avessi>>, rispuos' io appresso,
<<atteso a la cagion per ch'io guardava,
forse m'avresti ancor lo star dimesso>>.
Parte sen giva, e io retro li andava,
lo duca, gia faccendo la risposta,
e soggiugnendo: <<Dentro a quella cava
dov' io tenea or li occhi si a posta,
credo ch'un spirto del mio sangue pianga
la colpa che la giu cotanto costa>>.
Allor disse 'l maestro: <<Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr' ello.
Attendi ad altro, ed ei la si rimanga;
ch'io vidi lui a pie del ponticello
mostrarti e minacciar forte col dito,
e udi' 'l nominar Geri del Bello.
Tu eri allor si del tutto impedito
sovra colui che gia tenne Altaforte,
che non guardasti in la, si fu partito>>.
<<O duca mio, la violenta morte
che non li e vendicata ancor>>, diss' io,
<<per alcun che de l'onta sia consorte,
fece lui disdegnoso; ond' el sen gio
sanza parlarmi, si com' io estimo:
e in cio m'ha el fatto a se piu pio>>.
Cosi parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio l'altra valle mostra,
se piu lume vi fosse, tutto ad imo.
Quando noi fummo sor l'ultima chiostra
di Malebolge, si che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra,
lamenti saettaron me diversi,
che di pieta ferrati avean li strali;
ond' io li orecchi con le man copersi.
Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti 'nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n'usciva
qual suol venir de le marcite membre.
Noi discendemmo in su l'ultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
e allor fu la mia vista piu viva
giu ver' lo fondo, la 've la ministra
de l'alto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra.
Non credo ch'a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,
quando fu l'aere si pien di malizia,
che li animali, infino al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo,
si ristorar di seme di formiche;
ch'era a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche.
Qual sovra 'l ventre e qual sovra le spalle
l'un de l'altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.
Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone.
Io vidi due sedere a se poggiati,
com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al pie di schianze macolati;
e non vidi gia mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,
ne a colui che mal volontier vegghia,
come ciascun menava spesso il morso
de l'unghie sopra se per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha piu soccorso;
e si traevan giu l'unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o d'altro pesce che piu larghe l'abbia.
<<O tu che con le dita ti dismaglie>>,
comincio 'l duca mio a l'un di loro,
<<e che fai d'esse talvolta tanaglie,
dinne s'alcun Latino e tra costoro
che son quinc' entro, se l'unghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro>>.
<<Latin siam noi, che tu vedi si guasti
qui ambedue>>, rispuose l'un piangendo;
<<ma tu chi se' che di noi dimandasti? >>.
E 'l duca disse: <<I' son un che discendo
con questo vivo giu di balzo in balzo,
e di mostrar lo 'nferno a lui intendo>>.
Allor si ruppe lo comun rincalzo;
e tremando ciascuno a me si volse
con altri che l'udiron di rimbalzo.
Lo buon maestro a me tutto s'accolse,
dicendo: <<Di a lor cio che tu vuoli>>;
e io incominciai, poscia ch'ei volse:
<<Se la vostra memoria non s'imboli
nel primo mondo da l'umane menti,
ma s'ella viva sotto molti soli,
ditemi chi voi siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi>>.
<<Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena>>,
rispuose l'un, <<mi fe mettere al foco;
ma quel per ch'io mori' qui non mi mena.
Vero e ch'i' dissi lui, parlando a gioco:
"I' mi saprei levar per l'aere a volo";
e quei, ch'avea vaghezza e senno poco,
volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo
perch' io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l'avea per figliuolo.
Ma ne l'ultima bolgia de le diece
me per l'alchimia che nel mondo usai
danno Minos, a cui fallar non lece>>.
E io dissi al poeta: <<Or fu gia mai
gente si vana come la sanese?
Certo non la francesca si d'assai! >>.
Onde l'altro lebbroso, che m'intese,
rispuose al detto mio: <<Tra'mene Stricca
che seppe far le temperate spese,
e Niccolo che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l'orto dove tal seme s'appicca;
e tra'ne la brigata in che disperse
Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda,
e l'Abbagliato suo senno proferse.
Ma perche sappi chi si ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver' me l'occhio,
si che la faccia mia ben ti risponda:
si vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l'alchimia;
e te dee ricordar, se ben t'adocchio,
com' io fui di natura buona scimia>>.
Inferno ? Canto XXX
Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semele contra 'l sangue tebano,
come mostro una e altra fiata,
Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano,
grido: <<Tendiam le reti, si ch'io pigli
la leonessa e ' leoncini al varco>>;
e poi distese i dispietati artigli,
prendendo l'un ch'avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s'annego con l'altro carco.
E quando la fortuna volse in basso
l'altezza de' Troian che tutto ardiva,
si che 'nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latro si come cane;
tanto il dolor le fe la mente torta.
Ma ne di Tebe furie ne troiane
si vider mai in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonche membra umane,
quant' io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che 'l porco quando del porcil si schiude.
L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo l'assanno, si che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.
E l'Aretin che rimase, tremando
mi disse: <<Quel folletto e Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui cosi conciando>>.
<<Oh>>, diss' io lui, <<se l'altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi e, pria che di qui si spicchi>>.
Ed elli a me: <<Quell' e l'anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica.
Questa a peccar con esso cosi venne,
falsificando se in altrui forma,
come l'altro che la sen va, sostenne,
per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in se Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma>>.
E poi che i due rabbiosi fuor passati
sovra cu' io avea l'occhio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.
Io vidi un, fatto a guisa di leuto,
pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia
tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto.
La grave idropesi, che si dispaia
le membra con l'omor che mal converte,
che 'l viso non risponde a la ventraia,
faceva lui tener le labbra aperte
come l'etico fa, che per la sete
l'un verso 'l mento e l'altro in su rinverte.
<<O voi che sanz' alcuna pena siete,
e non so io perche, nel mondo gramo>>,
diss' elli a noi, <<guardate e attendete
a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch'i' volli,
e ora, lasso! , un gocciol d'acqua bramo.
Li ruscelletti che d'i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
che l'imagine lor vie piu m'asciuga
che 'l male ond' io nel volto mi discarno.
La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov' io peccai
a metter piu li miei sospiri in fuga.
Ivi e Romena, la dov' io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch'io il corpo su arso lasciai.
Ma s'io vedessi qui l'anima trista
di Guido o d'Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.
Dentro c'e l'una gia, se l'arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c'ho le membra legate?
S'io fossi pur di tanto ancor leggero
ch'i' potessi in cent' anni andare un'oncia,
io sarei messo gia per lo sentiero,
cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch'ella volge undici miglia,
e men d'un mezzo di traverso non ci ha.
Io son per lor tra si fatta famiglia;
e' m'indussero a batter li fiorini
ch'avevan tre carati di mondiglia>>.
E io a lui: <<Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate 'l verno,
giacendo stretti a' tuoi destri confini? >>.
<<Qui li trovai--e poi volta non dierno-->>,
rispuose, <<quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.
L'una e la falsa ch'accuso Gioseppo;
l'altr' e 'l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo>>.
E l'un di lor, che si reco a noia
forse d'esser nomato si oscuro,
col pugno li percosse l'epa croia.
Quella sono come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,
dicendo a lui: <<Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto>>.
Ond' ei rispuose: <<Quando tu andavi
al fuoco, non l'avei tu cosi presto;
ma si e piu l'avei quando coniavi>>.
E l'idropico: <<Tu di' ver di questo:
ma tu non fosti si ver testimonio
la 've del ver fosti a Troia richesto>>.
<<S'io dissi falso, e tu falsasti il conio>>,
disse Sinon; <<e son qui per un fallo,
e tu per piu ch'alcun altro demonio!