E io: <
si ch'io esca d'un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta>>.
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta>>.
Dante - La Divina Commedia
Ravenna sta come stata e molt' anni:
l'aguglia da Polenta la si cova,
si che Cervia ricuopre co' suoi vanni.
La terra che fe gia la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.
E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
la dove soglion fan d'i denti succhio.
Le citta di Lamone e di Santerno
conduce il lioncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.
E quella cu' il Savio bagna il fianco,
cosi com' ella sie' tra 'l piano e 'l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.
Ora chi se', ti priego che ne conte;
non esser duro piu ch'altri sia stato,
se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte>>.
Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l'aguta punta mosse
di qua, di la, e poi die cotal fiato:
<<S'i' credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza piu scosse;
ma pero che gia mai di questo fondo
non torno vivo alcun, s'i' odo il vero,
sanza tema d'infamia ti rispondo.
Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, si cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venia intero,
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda! ,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che m'intenda.
Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe
che la madre mi die, l'opere mie
non furon leonine, ma di volpe.
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e si menai lor arte,
ch'al fine de la terra il suono uscie.
Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,
cio che pria mi piacea, allor m'increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
Lo principe d'i novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin ne con Giudei,
che ciascun suo nimico era cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
ne mercatante in terra di Soldano,
ne sommo officio ne ordini sacri
guardo in se, ne in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti piu macri.
Ma come Costantin chiese Silvestro
d'entro Siratti a guerir de la lebbre,
cosi mi chiese questi per maestro
a guerir de la sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
perche le sue parole parver ebbre.
E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti;
finor t'assolvo, e tu m'insegna fare
si come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss' io serrare e diserrare,
come tu sai; pero son due le chiavi
che 'l mio antecessor non ebbe care".
Allor mi pinser li argomenti gravi
la 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio,
e dissi: "Padre, da che tu mi lavi
di quel peccato ov' io mo cader deggio,
lunga promessa con l'attender corto
ti fara triunfar ne l'alto seggio".
Francesco venne poi, com' io fu' morto,
per me; ma un d'i neri cherubini
li disse: "Non portar: non mi far torto.
Venir se ne dee giu tra ' miei meschini
perche diede 'l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a' crini;
ch'assolver non si puo chi non si pente,
ne pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente".
Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: "Forse
tu non pensavi ch'io loico fossi! ".
A Minos mi porto; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,
disse: "Questi e d'i rei del foco furo";
per ch'io la dove vedi son perduto,
e si vestito, andando, mi rancuro>>.
Quand' elli ebbe 'l suo dir cosi compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo 'l corno aguto.
Noi passamm' oltre, e io e 'l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l'altr' arco
che cuopre 'l fosso in che si paga il fio
a quei che scommettendo acquistan carco.
Inferno ? Canto XXVIII
Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch'i' ora vidi, per narrar piu volte?
Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
c'hanno a tanto comprender poco seno.
S'el s'aunasse ancor tutta la gente
che gia, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente
per li Troiani e per la lunga guerra
che de l'anella fe si alte spoglie,
come Livio scrive, che non erra,
con quella che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie
a Ceperan, la dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e la da Tagliacozzo,
dove sanz' arme vinse il vecchio Alardo;
e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, d'aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.
Gia veggia, per mezzul perdere o lulla,
com' io vidi un, cosi non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e 'l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder m'attacco,
guardommi e con le man s'aperse il petto,
dicendo: <<Or vedi com' io mi dilacco!
vedi come storpiato e Maometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Ali,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e pero son fessi cosi.
Un diavolo e qua dietro che n'accisma
si crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,
quand' avem volta la dolente strada;
pero che le ferite son richiuse
prima ch'altri dinanzi li rivada.
Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse,
forse per indugiar d'ire a la pena
ch'e giudicata in su le tue accuse? >>.
<<Ne morte 'l giunse ancor, ne colpa 'l mena>>,
rispuose 'l mio maestro, <<a tormentarlo;
ma per dar lui esperienza piena,
a me, che morto son, convien menarlo
per lo 'nferno qua giu di giro in giro;
e quest' e ver cosi com' io ti parlo>>.
Piu fuor di cento che, quando l'udiro,
s'arrestaron nel fosso a riguardarmi
per maraviglia, obliando il martiro.
<<Or di a fra Dolcin dunque che s'armi,
tu che forse vedra' il sole in breve,
s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,
si di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch'altrimenti acquistar non saria leve>>.
Poi che l'un pie per girsene sospese,
Maometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.
Un altro, che forata avea la gola
e tronco 'l naso infin sotto le ciglia,
e non avea mai ch'una orecchia sola,
ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri apri la canna,
ch'era di fuor d'ogne parte vermiglia,
e disse: <<O tu cui colpa non condanna
e cu' io vidi su in terra latina,
se troppa simiglianza non m'inganna,
rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabo dichina.
E fa saper a' due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l'antiveder qui non e vano,
gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d'un tiranno fello.
Tra l'isola di Cipri e di Maiolica
non vide mai si gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica.
Quel traditor che vede pur con l'uno,
e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno,
fara venirli a parlamento seco;
poi fara si, ch'al vento di Focara
non sara lor mestier voto ne preco>>.
E io a lui: <<Dimostrami e dichiara,
se vuo' ch'i' porti su di te novella,
chi e colui da la veduta amara>>.
Allor puose la mano a la mascella
d'un suo compagno e la bocca li aperse,
gridando: <<Questi e desso, e non favella.
Questi, scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che 'l fornito
sempre con danno l'attender sofferse>>.
Oh quanto mi pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza
Curio, ch'a dir fu cosi ardito!
E un ch'avea l'una e l'altra man mozza,
levando i moncherin per l'aura fosca,
si che 'l sangue facea la faccia sozza,
grido: <<Ricordera'ti anche del Mosca,
che disse, lasso! , "Capo ha cosa fatta",
che fu mal seme per la gente tosca>>.
E io li aggiunsi: <<E morte di tua schiatta>>;
per ch'elli, accumulando duol con duolo,
sen gio come persona trista e matta.
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa ch'io avrei paura,
sanza piu prova, di contarla solo;
se non che coscienza m'assicura,
la buona compagnia che l'uom francheggia
sotto l'asbergo del sentirsi pura.
Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia,
un busto sanza capo andar si come
andavan li altri de la trista greggia;
e 'l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: <<Oh me! >>.
Di se facea a se stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com' esser puo, quei sa che si governa.
Quando diritto al pie del ponte fue,
levo 'l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue,
che fuoro: <<Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s'alcuna e grande come questa.
E perche tu di me novella porti,
sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma' conforti.
Io feci il padre e 'l figlio in se ribelli;
Achitofel non fe piu d'Absalone
e di David coi malvagi punzelli.
Perch' io parti' cosi giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso! ,
dal suo principio ch'e in questo troncone.
Cosi s'osserva in me lo contrapasso>>.
Inferno ? Canto XXIX
La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie si inebriate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.
Ma Virgilio mi disse: <<Che pur guate?
perche la vista tua pur si soffolge
la giu tra l'ombre triste smozzicate?
Tu non hai fatto si a l'altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.
E gia la luna e sotto i nostri piedi;
lo tempo e poco omai che n'e concesso,
e altro e da veder che tu non vedi>>.
<<Se tu avessi>>, rispuos' io appresso,
<<atteso a la cagion per ch'io guardava,
forse m'avresti ancor lo star dimesso>>.
Parte sen giva, e io retro li andava,
lo duca, gia faccendo la risposta,
e soggiugnendo: <<Dentro a quella cava
dov' io tenea or li occhi si a posta,
credo ch'un spirto del mio sangue pianga
la colpa che la giu cotanto costa>>.
Allor disse 'l maestro: <<Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr' ello.
Attendi ad altro, ed ei la si rimanga;
ch'io vidi lui a pie del ponticello
mostrarti e minacciar forte col dito,
e udi' 'l nominar Geri del Bello.
Tu eri allor si del tutto impedito
sovra colui che gia tenne Altaforte,
che non guardasti in la, si fu partito>>.
<<O duca mio, la violenta morte
che non li e vendicata ancor>>, diss' io,
<<per alcun che de l'onta sia consorte,
fece lui disdegnoso; ond' el sen gio
sanza parlarmi, si com' io estimo:
e in cio m'ha el fatto a se piu pio>>.
Cosi parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio l'altra valle mostra,
se piu lume vi fosse, tutto ad imo.
Quando noi fummo sor l'ultima chiostra
di Malebolge, si che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra,
lamenti saettaron me diversi,
che di pieta ferrati avean li strali;
ond' io li orecchi con le man copersi.
Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti 'nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n'usciva
qual suol venir de le marcite membre.
Noi discendemmo in su l'ultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
e allor fu la mia vista piu viva
giu ver' lo fondo, la 've la ministra
de l'alto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra.
Non credo ch'a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,
quando fu l'aere si pien di malizia,
che li animali, infino al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo,
si ristorar di seme di formiche;
ch'era a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche.
Qual sovra 'l ventre e qual sovra le spalle
l'un de l'altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.
Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone.
Io vidi due sedere a se poggiati,
com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al pie di schianze macolati;
e non vidi gia mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,
ne a colui che mal volontier vegghia,
come ciascun menava spesso il morso
de l'unghie sopra se per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha piu soccorso;
e si traevan giu l'unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o d'altro pesce che piu larghe l'abbia.
<<O tu che con le dita ti dismaglie>>,
comincio 'l duca mio a l'un di loro,
<<e che fai d'esse talvolta tanaglie,
dinne s'alcun Latino e tra costoro
che son quinc' entro, se l'unghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro>>.
<<Latin siam noi, che tu vedi si guasti
qui ambedue>>, rispuose l'un piangendo;
<<ma tu chi se' che di noi dimandasti? >>.
E 'l duca disse: <<I' son un che discendo
con questo vivo giu di balzo in balzo,
e di mostrar lo 'nferno a lui intendo>>.
Allor si ruppe lo comun rincalzo;
e tremando ciascuno a me si volse
con altri che l'udiron di rimbalzo.
Lo buon maestro a me tutto s'accolse,
dicendo: <<Di a lor cio che tu vuoli>>;
e io incominciai, poscia ch'ei volse:
<<Se la vostra memoria non s'imboli
nel primo mondo da l'umane menti,
ma s'ella viva sotto molti soli,
ditemi chi voi siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi>>.
<<Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena>>,
rispuose l'un, <<mi fe mettere al foco;
ma quel per ch'io mori' qui non mi mena.
Vero e ch'i' dissi lui, parlando a gioco:
"I' mi saprei levar per l'aere a volo";
e quei, ch'avea vaghezza e senno poco,
volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo
perch' io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l'avea per figliuolo.
Ma ne l'ultima bolgia de le diece
me per l'alchimia che nel mondo usai
danno Minos, a cui fallar non lece>>.
E io dissi al poeta: <<Or fu gia mai
gente si vana come la sanese?
Certo non la francesca si d'assai! >>.
Onde l'altro lebbroso, che m'intese,
rispuose al detto mio: <<Tra'mene Stricca
che seppe far le temperate spese,
e Niccolo che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l'orto dove tal seme s'appicca;
e tra'ne la brigata in che disperse
Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda,
e l'Abbagliato suo senno proferse.
Ma perche sappi chi si ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver' me l'occhio,
si che la faccia mia ben ti risponda:
si vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l'alchimia;
e te dee ricordar, se ben t'adocchio,
com' io fui di natura buona scimia>>.
Inferno ? Canto XXX
Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semele contra 'l sangue tebano,
come mostro una e altra fiata,
Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano,
grido: <<Tendiam le reti, si ch'io pigli
la leonessa e ' leoncini al varco>>;
e poi distese i dispietati artigli,
prendendo l'un ch'avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s'annego con l'altro carco.
E quando la fortuna volse in basso
l'altezza de' Troian che tutto ardiva,
si che 'nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latro si come cane;
tanto il dolor le fe la mente torta.
Ma ne di Tebe furie ne troiane
si vider mai in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonche membra umane,
quant' io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che 'l porco quando del porcil si schiude.
L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo l'assanno, si che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.
E l'Aretin che rimase, tremando
mi disse: <<Quel folletto e Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui cosi conciando>>.
<<Oh>>, diss' io lui, <<se l'altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi e, pria che di qui si spicchi>>.
Ed elli a me: <<Quell' e l'anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica.
Questa a peccar con esso cosi venne,
falsificando se in altrui forma,
come l'altro che la sen va, sostenne,
per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in se Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma>>.
E poi che i due rabbiosi fuor passati
sovra cu' io avea l'occhio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.
Io vidi un, fatto a guisa di leuto,
pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia
tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto.
La grave idropesi, che si dispaia
le membra con l'omor che mal converte,
che 'l viso non risponde a la ventraia,
faceva lui tener le labbra aperte
come l'etico fa, che per la sete
l'un verso 'l mento e l'altro in su rinverte.
<<O voi che sanz' alcuna pena siete,
e non so io perche, nel mondo gramo>>,
diss' elli a noi, <<guardate e attendete
a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch'i' volli,
e ora, lasso! , un gocciol d'acqua bramo.
Li ruscelletti che d'i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
che l'imagine lor vie piu m'asciuga
che 'l male ond' io nel volto mi discarno.
La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov' io peccai
a metter piu li miei sospiri in fuga.
Ivi e Romena, la dov' io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch'io il corpo su arso lasciai.
Ma s'io vedessi qui l'anima trista
di Guido o d'Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.
Dentro c'e l'una gia, se l'arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c'ho le membra legate?
S'io fossi pur di tanto ancor leggero
ch'i' potessi in cent' anni andare un'oncia,
io sarei messo gia per lo sentiero,
cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch'ella volge undici miglia,
e men d'un mezzo di traverso non ci ha.
Io son per lor tra si fatta famiglia;
e' m'indussero a batter li fiorini
ch'avevan tre carati di mondiglia>>.
E io a lui: <<Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate 'l verno,
giacendo stretti a' tuoi destri confini? >>.
<<Qui li trovai--e poi volta non dierno-->>,
rispuose, <<quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.
L'una e la falsa ch'accuso Gioseppo;
l'altr' e 'l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo>>.
E l'un di lor, che si reco a noia
forse d'esser nomato si oscuro,
col pugno li percosse l'epa croia.
Quella sono come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,
dicendo a lui: <<Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto>>.
Ond' ei rispuose: <<Quando tu andavi
al fuoco, non l'avei tu cosi presto;
ma si e piu l'avei quando coniavi>>.
E l'idropico: <<Tu di' ver di questo:
ma tu non fosti si ver testimonio
la 've del ver fosti a Troia richesto>>.
<<S'io dissi falso, e tu falsasti il conio>>,
disse Sinon; <<e son qui per un fallo,
e tu per piu ch'alcun altro demonio! >>.
<<Ricorditi, spergiuro, del cavallo>>,
rispuose quel ch'avea infiata l'epa;
<<e sieti reo che tutto il mondo sallo! >>.
<<E te sia rea la sete onde ti crepa>>,
disse 'l Greco, <<la lingua, e l'acqua marcia
che 'l ventre innanzi a li occhi si t'assiepa! >>.
Allora il monetier: <<Cosi si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
che, s'i' ho sete e omor mi rinfarcia,
tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a 'nvitar molte parole>>.
Ad ascoltarli er' io del tutto fisso,
quando 'l maestro mi disse: <<Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso! >>.
Quand' io 'l senti' a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
ch'ancor per la memoria mi si gira.
Qual e colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
si che quel ch'e, come non fosse, agogna,
tal mi fec' io, non possendo parlare,
che disiava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.
<<Maggior difetto men vergogna lava>>,
disse 'l maestro, <<che 'l tuo non e stato;
pero d'ogne trestizia ti disgrava.
E fa ragion ch'io ti sia sempre allato,
se piu avvien che fortuna t'accoglia
dove sien genti in simigliante piato:
che voler cio udire e bassa voglia>>.
Inferno ? Canto XXXI
Una medesma lingua pria mi morse,
si che mi tinse l'una e l'altra guancia,
e poi la medicina mi riporse;
cosi od' io che solea far la lancia
d'Achille e del suo padre esser cagione
prima di trista e poi di buona mancia.
Noi demmo il dosso al misero vallone
su per la ripa che 'l cinge dintorno,
attraversando sanza alcun sermone.
Quiv' era men che notte e men che giorno,
si che 'l viso m'andava innanzi poco;
ma io senti' sonare un alto corno,
tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra se la sua via seguitando,
dirizzo li occhi miei tutti ad un loco.
Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perde la santa gesta,
non sono si terribilmente Orlando.
Poco portai in la volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;
ond' io: <<Maestro, di, che terra e questa? >>.
Ed elli a me: <<Pero che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,
avvien che poi nel maginare abborri.
Tu vedrai ben, se tu la ti congiungi,
quanto 'l senso s'inganna di lontano;
pero alquanto piu te stesso pungi>>.
Poi caramente mi prese per mano
e disse: <<Pria che noi siam piu avanti,
accio che 'l fatto men ti paia strano,
sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
da l'umbilico in giuso tutti quanti>>.
Come quando la nebbia si dissipa,
lo sguardo a poco a poco raffigura
cio che cela 'l vapor che l'aere stipa,
cosi forando l'aura grossa e scura,
piu e piu appressando ver' la sponda,
fuggiemi errore e cresciemi paura;
pero che, come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
cosi la proda che 'l pozzo circonda
torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.
E io scorgeva gia d'alcun la faccia,
le spalle e 'l petto e del ventre gran parte,
e per le coste giu ambo le braccia.
Natura certo, quando lascio l'arte
di si fatti animali, assai fe bene
per torre tali essecutori a Marte.
E s'ella d'elefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente,
piu giusta e piu discreta la ne tene;
che dove l'argomento de la mente
s'aggiugne al mal volere e a la possa,
nessun riparo vi puo far la gente.
La faccia sua mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran l'altre ossa;
si che la ripa, ch'era perizoma
dal mezzo in giu, ne mostrava ben tanto
di sovra, che di giugnere a la chioma
tre Frison s'averien dato mal vanto;
pero ch'i' ne vedea trenta gran palmi
dal loco in giu dov' omo affibbia 'l manto.
<<Raphel mai amecche zabi almi>>,
comincio a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia piu dolci salmi.
E 'l duca mio ver' lui: <<Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand' ira o altra passion ti tocca!
Cercati al collo, e troverai la soga
che 'l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che 'l gran petto ti doga>>.
Poi disse a me: <<Elli stessi s'accusa;
questi e Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s'usa.
Lascianlo stare e non parliamo a voto;
che cosi e a lui ciascun linguaggio
come 'l suo ad altrui, ch'a nullo e noto>>.
Facemmo adunque piu lungo viaggio,
volti a sinistra; e al trar d'un balestro
trovammo l'altro assai piu fero e maggio.
A cigner lui qual che fosse 'l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi l'altro e dietro il braccio destro
d'una catena che 'l tenea avvinto
dal collo in giu, si che 'n su lo scoperto
si ravvolgea infino al giro quinto.
<<Questo superbo volle esser esperto
di sua potenza contra 'l sommo Giove>>,
disse 'l mio duca, <<ond' elli ha cotal merto.
Fialte ha nome, e fece le gran prove
quando i giganti fer paura a' dei;
le braccia ch'el meno, gia mai non move>>.
E io a lui: <<S'esser puote, io vorrei
che de lo smisurato Briareo
esperienza avesser li occhi mei>>.
Ond' ei rispuose: <<Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed e disciolto,
che ne porra nel fondo d'ogne reo.
Quel che tu vuo' veder, piu la e molto
ed e legato e fatto come questo,
salvo che piu feroce par nel volto>>.
Non fu tremoto gia tanto rubesto,
che scotesse una torre cosi forte,
come Fialte a scuotersi fu presto.
Allor temett' io piu che mai la morte,
e non v'era mestier piu che la dotta,
s'io non avessi viste le ritorte.
Noi procedemmo piu avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
sanza la testa, uscia fuor de la grotta.
<<O tu che ne la fortunata valle
che fece Scipion di gloria reda,
quand' Anibal co' suoi diede le spalle,
recasti gia mille leon per preda,
e che, se fossi stato a l'alta guerra
de' tuoi fratelli, ancor par che si creda
ch'avrebber vinto i figli de la terra:
mettine giu, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra.
Non ci fare ire a Tizio ne a Tifo:
questi puo dar di quel che qui si brama;
pero ti china e non torcer lo grifo.
Ancor ti puo nel mondo render fama,
ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta
se 'nnanzi tempo grazia a se nol chiama>>.
Cosi disse 'l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese 'l duca mio,
ond' Ercule senti gia grande stretta.
Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: <<Fatti qua, si ch'io ti prenda>>;
poi fece si ch'un fascio era elli e io.
Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto 'l chinato, quando un nuvol vada
sovr' essa si, ched ella incontro penda:
tal parve Anteo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
ch'i' avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente al fondo che divora
Lucifero con Giuda, ci sposo;
ne, si chinato, li fece dimora,
e come albero in nave si levo.
Inferno ? Canto XXXII
S'io avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
piu pienamente; ma perch' io non l'abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;
che non e impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l'universo,
ne da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch'aiutaro Anfione a chiuder Tebe,
si che dal fatto il dir non sia diverso.
Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare e duro,
mei foste state qui pecore o zebe!
Come noi fummo giu nel pozzo scuro
sotto i pie del gigante assai piu bassi,
e io mirava ancora a l'alto muro,
dicere udi'mi: <<Guarda come passi:
va si, che tu non calchi con le piante
le teste de' fratei miseri lassi>>.
Per ch'io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d'acqua sembiante.
Non fece al corso suo si grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
ne Tanai la sotto 'l freddo cielo,
com' era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse su caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l'orlo fatto cricchi.
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l'acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana,
livide, insin la dove appar vergogna
eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in giu tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.
Quand' io m'ebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a' piedi, e vidi due si stretti,
che 'l pel del capo avieno insieme misto.
<<Ditemi, voi che si strignete i petti>>,
diss' io, <<chi siete? >>. E quei piegaro i colli;
e poi ch'ebber li visi a me eretti,
li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse
forte cosi; ond' ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
E un ch'avea perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giue,
disse: <<Perche cotanto in noi ti specchi?
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.
D'un corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna piu d'esser fitta in gelatina:
non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra
con esso un colpo per la man d'Artu;
non Focaccia; non questi che m'ingombra
col capo si, ch'i' non veggio oltre piu,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco se', ben sai omai chi fu.
E perche non mi metti in piu sermoni,
sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni>>.
Poscia vid' io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verra sempre, de' gelati guazzi.
E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne l'etterno rezzo;
se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi 'l pie nel viso ad una.
Piangendo mi sgrido: <<Perche mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perche mi moleste? >>.
E io: <
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta>>.
Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
<<Qual se' tu che cosi rampogni altrui? >>.
<<Or tu chi se' che vai per l'Antenora,
percotendo>>, rispuose, <<altrui le gote,
si che, se fossi vivo, troppo fora? >>.
<<Vivo son io, e caro esser ti puote>>,
fu mia risposta, <<se dimandi fama,
ch'io metta il nome tuo tra l'altre note>>.
Ed elli a me: <<Del contrario ho io brama.
Levati quinci e non mi dar piu lagna,
che mal sai lusingar per questa lama! >>.
Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: <<El converra che tu ti nomi,
o che capel qui su non ti rimagna>>.
Ond' elli a me: <<Perche tu mi dischiomi,
ne ti diro ch'io sia, ne mosterrolti,
se mille fiate in sul capo mi tomi>>.
Io avea gia i capelli in mano avvolti,
e tratti glien' avea piu d'una ciocca,
latrando lui con li occhi in giu raccolti,
quando un altro grido: <<Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca? >>.
<<Omai>>, diss' io, <<non vo' che piu favelle,
malvagio traditor; ch'a la tua onta
io portero di te vere novelle>>.
<<Va via>>, rispuose, <<e cio che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch'ebbe or cosi la lingua pronta.
El piange qui l'argento de' Franceschi:
"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera
la dove i peccatori stanno freschi".
Se fossi domandato "Altri chi v'era? ",
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui sego Fiorenza la gorgiera.
Gianni de' Soldanier credo che sia
piu la con Ganellone e Tebaldello,
ch'apri Faenza quando si dormia>>.
Noi eravam partiti gia da ello,
ch'io vidi due ghiacciati in una buca,
si che l'un capo a l'altro era cappello;
e come 'l pan per fame si manduca,
cosi 'l sovran li denti a l'altro pose
la 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tideo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l'altre cose.
<<O tu che mostri per si bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi 'l perche>>, diss' io, <<per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con ch'io parlo non si secca>>.
Inferno ? Canto XXXIII
La bocca sollevo dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.
Poi comincio: <<Tu vuo' ch'io rinovelli
disperato dolor che 'l cor mi preme
gia pur pensando, pria ch'io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se' ne per che modo
venuto se' qua giu; ma fiorentino
mi sembri veramente quand' io t'odo.
Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,
e questi e l'arcivescovo Ruggieri:
or ti diro perche i son tal vicino.
Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non e mestieri;
pero quel che non puoi avere inteso,
cioe come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha 'l titol de la fame,
e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,
m'avea mostrato per lo suo forame
piu lune gia, quand' io feci 'l mal sonno
che del futuro mi squarcio 'l velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ' lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studiose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s'avea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ' figli, e con l'agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli
ch'eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se' crudel, se tu gia non ti duoli
pensando cio che 'l mio cor s'annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Gia eran desti, e l'ora s'appressava
che 'l cibo ne solea essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti' chiavar l'uscio di sotto
a l'orribile torre; ond' io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.
Io non piangea, si dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi si, padre! che hai? ".
Percio non lagrimai ne rispuos' io
tutto quel giorno ne la notte appresso,
infin che l'altro sol nel mondo uscio.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia
di manicar, di subito levorsi
e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia".
Queta'mi allor per non farli piu tristi;
lo di e l'altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perche non t'apristi?
Poscia che fummo al quarto di venuti,
Gaddo mi si gitto disteso a' piedi,
dicendo: "Padre mio, che non m'aiuti? ".
Quivi mori; e come tu mi vedi,
vid' io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto di e 'l sesto; ond' io mi diedi,
gia cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due di li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, piu che 'l dolor, pote 'l digiuno>>.
Quand' ebbe detto cio, con li occhi torti
riprese 'l teschio misero co' denti,
che furo a l'osso, come d'un can, forti.
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese la dove 'l si suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
si ch'elli annieghi in te ogne persona!
Che se 'l conte Ugolino aveva voce
d'aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l'eta novella,
novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata
e li altri due che 'l canto suso appella.
Noi passammo oltre, la 've la gelata
ruvidamente un'altra gente fascia,
non volta in giu, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso li pianger non lascia,
e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l'ambascia;
che le lagrime prime fanno groppo,
e si come visiere di cristallo,
riempion sotto 'l ciglio tutto il coppo.
E avvegna che, si come d'un callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,
gia mi parea sentire alquanto vento;
per ch'io: <<Maestro mio, questo chi move?
non e qua giu ogne vapore spento? >>.
Ond' elli a me: <<Avaccio sarai dove
di cio ti fara l'occhio la risposta,
veggendo la cagion che 'l fiato piove>>.
E un de' tristi de la fredda crosta
grido a noi: <<O anime crudeli
tanto che data v'e l'ultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
si ch'io sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna,
un poco, pria che 'l pianto si raggeli>>.
Per ch'io a lui: <<Se vuo' ch'i' ti sovvegna,
dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna>>.
Rispuose adunque: <<I' son frate Alberigo;
i' son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo>>.
<<Oh>>, diss' io lui, <<or se' tu ancor morto? >>.
Ed elli a me: <<Come 'l mio corpo stea
nel mondo su, nulla scienza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l'anima ci cade
innanzi ch'Atropos mossa le dea.
E perche tu piu volentier mi rade
le 'nvetriate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l'anima trade
come fec' io, il corpo suo l'e tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che 'l tempo suo tutto sia volto.
Ella ruina in si fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l'ombra che di qua dietro mi verna.
Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli e ser Branca Doria, e son piu anni
poscia passati ch'el fu si racchiuso>>.
<<Io credo>>, diss' io lui, <<che tu m'inganni;
che Branca Doria non mori unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni>>.
<<Nel fosso su>>, diss' el, <<de' Malebranche,
la dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche,
che questi lascio il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che 'l tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi>>. E io non gliel' apersi;
e cortesia fu lui esser villano.
Ahi Genovesi, uomini diversi
d'ogne costume e pien d'ogne magagna,
perche non siete voi del mondo spersi?
Che col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito gia si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.
Inferno ? Canto XXXIV
<<Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; pero dinanzi mira>>,
disse 'l maestro mio, <<se tu 'l discerni>>.
Come quando una grossa nebbia spira,
o quando l'emisperio nostro annotta,
par di lungi un molin che 'l vento gira,
veder mi parve un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio, che non li era altra grotta.
Gia era, e con paura il metto in metro,
la dove l'ombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com' arco, il volto a' pie rinverte.
Quando noi fummo fatti tanto avante,
ch'al mio maestro piacque di mostrarmi
la creatura ch'ebbe il bel sembiante,
d'innanzi mi si tolse e fe restarmi,
<<Ecco Dite>>, dicendo, <<ed ecco il loco
ove convien che di fortezza t'armi>>.
Com' io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo,
pero ch'ogne parlar sarebbe poco.
Io non mori' e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno,
qual io divenni, d'uno e d'altro privo.
Lo 'mperador del doloroso regno
da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia;
e piu con un gigante io mi convegno,
che i giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant' esser dee quel tutto
ch'a cosi fatta parte si confaccia.
S'el fu si bel com' elli e ora brutto,
e contra 'l suo fattore alzo le ciglia,
ben dee da lui procedere ogne lutto.
Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand' io vidi tre facce a la sua testa!
L'una dinanzi, e quella era vermiglia;
l'altr' eran due, che s'aggiugnieno a questa
sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla,
e se giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di la onde 'l Nilo s'avvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grand' ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid' io mai cotali.
Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
si che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto s'aggelava.
Con sei occhi piangea, e per tre menti
gocciava 'l pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea co' denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
si che tre ne facea cosi dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso 'l graffiar, che talvolta la schiena
rimanea de la pelle tutta brulla.
<<Quell' anima la su c'ha maggior pena>>,
disse 'l maestro, <<e Giuda Scariotto,
che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due c'hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo e Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto! ;
e l'altro e Cassio, che par si membruto.
Ma la notte risurge, e oramai
e da partir, che tutto avem veduto>>.
Com' a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
e quando l'ali fuoro aperte assai,
appiglio se a le vellute coste;
di vello in vello giu discese poscia
tra 'l folto pelo e le gelate croste.
Quando noi fummo la dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l'anche,
lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ov' elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com' om che sale,
si che 'n inferno i' credea tornar anche.
<<Attienti ben, che per cotali scale>>,
disse 'l maestro, ansando com' uom lasso,
<<conviensi dipartir da tanto male>>.
Poi usci fuor per lo foro d'un sasso
e puose me in su l'orlo a sedere;
appresso porse a me l'accorto passo.
Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com' io l'avea lasciato,
e vidili le gambe in su tenere;
e s'io divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
qual e quel punto ch'io avea passato.
<<Levati su>>, disse 'l maestro, <<in piede:
la via e lunga e 'l cammino e malvagio,
e gia il sole a mezza terza riede>>.
Non era camminata di palagio
la 'v' eravam, ma natural burella
ch'avea mal suolo e di lume disagio.
<<Prima ch'io de l'abisso mi divella,
maestro mio>>, diss' io quando fui dritto,
<<a trarmi d'erro un poco mi favella:
ov' e la ghiaccia? e questi com' e fitto
si sottosopra? e come, in si poc' ora,
da sera a mane ha fatto il sol tragitto? >>.
Ed elli a me: <<Tu imagini ancora
d'esser di la dal centro, ov' io mi presi
al pel del vermo reo che 'l mondo fora.
Di la fosti cotanto quant' io scesi;
quand' io mi volsi, tu passasti 'l punto
al qual si traggon d'ogne parte i pesi.
E se' or sotto l'emisperio giunto
ch'e contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto
fu l'uom che nacque e visse sanza pecca;
tu hai i piedi in su picciola spera
che l'altra faccia fa de la Giudecca.
Qui e da man, quando di la e sera;
e questi, che ne fe scala col pelo,
fitto e ancora si come prim' era.
Da questa parte cadde giu dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fe del mar velo,
e venne a l'emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lascio qui loco voto
quella ch'appar di qua, e su ricorse>>.
Luogo e la giu da Belzebu remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono e noto
d'un ruscelletto che quivi discende
per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso,
col corso ch'elli avvolge, e poco pende.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d'alcun riposo,
salimmo su, el primo e io secondo,
tanto ch'i' vidi de le cose belle
che porta 'l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
PURGATORIO
Purgatorio ? Canto I
Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a se mar si crudele;
e cantero di quel secondo regno
dove l'umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesi resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Caliope alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.
Dolce color d'oriental zaffiro,
che s'accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricomincio diletto,
tosto ch'io usci' fuor de l'aura morta
che m'avea contristati li occhi e 'l petto.
Lo bel pianeto che d'amar conforta
faceva tutto rider l'oriente,
velando i Pesci ch'erano in sua scorta.
I' mi volsi a man destra, e puosi mente
a l'altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch'a la prima gente.
Goder pareva 'l ciel di lor fiammelle:
oh settentrional vedovo sito,
poi che privato se' di mirar quelle!
Com' io da loro sguardo fui partito,
un poco me volgendo a l 'altro polo,
la onde 'l Carro gia era sparito,
vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che piu non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a' suoi capelli simigliante,
de' quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan si la sua faccia di lume,
ch'i' 'l vedea come 'l sol fosse davante.
<<Chi siete voi che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna? >>,
diss' el, movendo quelle oneste piume.
<<Chi v'ha guidati, o che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi d'abisso cosi rotte?
o e mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte? >>.
Lo duca mio allor mi die di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fe le gambe e 'l ciglio.
Poscia rispuose lui: <<Da me non venni:
donna scese del ciel, per li cui prieghi
de la mia compagnia costui sovvenni.
Ma da ch'e tuo voler che piu si spieghi
di nostra condizion com' ell' e vera,
esser non puote il mio che a te si nieghi.
Questi non vide mai l'ultima sera;
ma per la sua follia le fu si presso,
che molto poco tempo a volger era.
Si com' io dissi, fui mandato ad esso
per lui campare; e non li era altra via
che questa per la quale i' mi son messo.
Mostrata ho lui tutta la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti
che purgan se sotto la tua balia.
Com' io l'ho tratto, saria lungo a dirti;
de l'alto scende virtu che m'aiuta
conducerlo a vederti e a udirti.
Or ti piaccia gradir la sua venuta:
liberta va cercando, ch'e si cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu 'l sai, che non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch'al gran di sara si chiara.
Non son li editti etterni per noi guasti,
che questi vive e Minos me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che 'n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li tuoi sette regni;
grazie riportero di te a lei,
se d'esser mentovato la giu degni>>.
<<Marzia piacque tanto a li occhi miei
mentre ch'i' fu' di la>>, diss' elli allora,
<<che quante grazie volse da me, fei.
Or che di la dal mal fiume dimora,
piu muover non mi puo, per quella legge
che fatta fu quando me n'usci' fora.
Ma se donna del ciel ti move e regge,
come tu di', non c'e mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge.
Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d'un giunco schietto e che li lavi 'l viso,
si ch'ogne sucidume quindi stinghe;
che non si converria, l'occhio sorpriso
d'alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
ministro, ch'e di quei di paradiso.
Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
la giu cola dove la batte l'onda,
porta di giunchi sovra 'l molle limo:
null' altra pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
pero ch'a le percosse non seconda.
Poscia non sia di qua vostra reddita;
lo sol vi mosterra, che surge omai,
prendere il monte a piu lieve salita>>.
Cosi spari; e io su mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
El comincio: <<Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, che di qua dichina
questa pianura a' suoi termini bassi>>.
L'alba vinceva l'ora mattutina
che fuggia innanzi, si che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo solingo piano
com' om che torna a la perduta strada,
che 'nfino ad essa li pare ire in vano.
Quando noi fummo la 've la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su l'erbetta sparte
soavemente 'l mio maestro pose:
ond' io, che fui accorto di sua arte,
porsi ver' lui le guance lagrimose;
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che l'inferno mi nascose.
Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse si com' altrui piacque:
oh maraviglia! che qual elli scelse
l'umile pianta, cotal si rinacque
subitamente la onde l'avelse.
Purgatorio ? Canto II
Gia era 'l sole a l'orizzonte giunto
lo cui meridian cerchio coverchia
Ierusalem col suo piu alto punto;
e la notte, che opposita a lui cerchia,
uscia di Gange fuor con le Bilance,
che le caggion di man quando soverchia;
si che le bianche e le vermiglie guance,
la dov' i' era, de la bella Aurora
per troppa etate divenivan rance.
Noi eravam lunghesso mare ancora,
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.
Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giu nel ponente sovra 'l suol marino,
cotal m'apparve, s'io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir si ratto,
che 'l muover suo nessun volar pareggia.
Dal qual com' io un poco ebbi ritratto
l'occhio per domandar lo duca mio,
rividil piu lucente e maggior fatto.
Poi d'ogne lato ad esso m'appario
un non sapeva che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscio.
Lo mio maestro ancor non facea motto,
mentre che i primi bianchi apparver ali;
allor che ben conobbe il galeotto,
grido: <<Fa, fa che le ginocchia cali.
Ecco l'angel di Dio: piega le mani;
omai vedrai di si fatti officiali.
Vedi che sdegna li argomenti umani,
si che remo non vuol, ne altro velo
che l'ali sue, tra liti si lontani.
Vedi come l'ha dritte verso 'l cielo,
trattando l'aere con l'etterne penne,
che non si mutan come mortal pelo>>.
Poi, come piu e piu verso noi venne
l'uccel divino, piu chiaro appariva:
per che l'occhio da presso nol sostenne,
ma chinail giuso; e quei sen venne a riva
con un vasello snelletto e leggero,
tanto che l'acqua nulla ne 'nghiottiva.
Da poppa stava il celestial nocchiero,
tal che faria beato pur descripto;
e piu di cento spirti entro sediero.
'In exitu Israel de Aegypto'
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo e poscia scripto.
Poi fece il segno lor di santa croce;
ond' ei si gittar tutti in su la piaggia:
ed el sen gi, come venne, veloce.
La turba che rimase li, selvaggia
parea del loco, rimirando intorno
come colui che nove cose assaggia.
Da tutte parti saettava il giorno
lo sol, ch'avea con le saette conte
di mezzo 'l ciel cacciato Capricorno,
quando la nova gente alzo la fronte
ver' noi, dicendo a noi: <<Se voi sapete,
mostratene la via di gire al monte>>.
E Virgilio rispuose: <<Voi credete
forse che siamo esperti d'esto loco;
ma noi siam peregrin come voi siete.
Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco,
per altra via, che fu si aspra e forte,
che lo salire omai ne parra gioco>>.
L'anime, che si fuor di me accorte,
per lo spirare, ch'i' era ancor vivo,
maravigliando diventaro smorte.
E come a messagger che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar nessun si mostra schivo,
cosi al viso mio s'affisar quelle
anime fortunate tutte quante,
quasi obliando d'ire a farsi belle.
Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi con si grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante.
Ohi ombre vane, fuor che ne l'aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
per che l'ombra sorrise e si ritrasse,
e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
Soavemente disse ch'io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s'arrestasse.
Rispuosemi: <<Cosi com' io t'amai
nel mortal corpo, cosi t'amo sciolta:
pero m'arresto; ma tu perche vai? >>.
<<Casella mio, per tornar altra volta
la dov' io son, fo io questo viaggio>>,
diss' io; <<ma a te com' e tanta ora tolta? >>.
Ed elli a me: <<Nessun m'e fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
piu volte m'ha negato esto passaggio;
che di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ond' io, ch'era ora a la marina volto
dove l'acqua di Tevero s'insala,
benignamente fu' da lui ricolto.
A quella foce ha elli or dritta l'ala,
pero che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si cala>>.
E io: <<Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l'amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di cio ti piaccia consolare alquanto
l'anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, e affannata tanto! >>.
'Amor che ne la mente mi ragiona'
comincio elli allor si dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch'eran con lui parevan si contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
Noi eravam tutti fissi e attenti
a le sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: <<Che e cio, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare e questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch'esser non lascia a voi Dio manifesto>>.
Come quando, cogliendo biado o loglio,
li colombi adunati a la pastura,
queti, sanza mostrar l'usato orgoglio,
se cosa appare ond' elli abbian paura,
subitamente lasciano star l'esca,
perch' assaliti son da maggior cura;
cosi vid' io quella masnada fresca
lasciar lo canto, e fuggir ver' la costa,
com' om che va, ne sa dove riesca;
ne la nostra partita fu men tosta.
Purgatorio ? Canto III
Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i' mi ristrinsi a la fida compagna:
e come sare' io sanza lui corso?
chi m'avria tratto su per la montagna?
El mi parea da se stesso rimorso:
o dignitosa coscienza e netta,
come t'e picciol fallo amaro morso!
Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
che l'onestade ad ogn' atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta,
lo 'ntento rallargo, si come vaga,
e diedi 'l viso mio incontr' al poggio
che 'nverso 'l ciel piu alto si dislaga.
Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
rotto m'era dinanzi a la figura,
ch'avea in me de' suoi raggi l'appoggio.
Io mi volsi dallato con paura
d'essere abbandonato, quand' io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura;
e 'l mio conforto: <<Perche pur diffidi?
