La gente che per li
sepolcri
giace
potrebbesi veder?
potrebbesi veder?
Dante - La Divina Commedia
Caina attende chi a vita ci spense>>.
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand' io intesi quell' anime offense,
china' il viso, e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: <<Che pense? >>.
Quando rispuosi, cominciai: <<Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
meno costoro al doloroso passo! >>.
Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
e cominciai: <<Francesca, i tuoi martiri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri? >>.
E quella a me: <<Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e cio sa 'l tuo dottore.
Ma s'a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
diro come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per piu fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi bascio tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno piu non vi leggemmo avante>>.
Mentre che l'uno spirto questo disse,
l'altro piangea; si che di pietade
io venni men cosi com' io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Inferno ? Canto VI
Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pieta d'i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,
novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch'io mi mova
e ch'io mi volga, e come che io guati.
Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualita mai non l'e nova.
Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l'aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi e sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e 'l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la pioggia come cani;
de l'un de' lati fanno a l'altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.
E 'l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gitto dentro a le bramose canne.
Qual e quel cane ch'abbaiando agogna,
e si racqueta poi che 'l pasto morde,
che solo a divorarlo intende e pugna,
cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che 'ntrona
l'anime si, ch'esser vorrebber sorde.
Noi passavam su per l'ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanita che par persona.
Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d'una ch'a seder si levo, ratto
ch'ella ci vide passarsi davante.
<<O tu che se' per questo 'nferno tratto>>,
mi disse, <<riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto>>.
E io a lui: <<L'angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
si che non par ch'i' ti vedessi mai.
Ma dimmi chi tu se' che 'n si dolente
loco se' messo, e hai si fatta pena,
che, s'altra e maggio, nulla e si spiacente>>.
Ed elli a me: <<La tua citta, ch'e piena
d'invidia si che gia trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
E io anima trista non son sola,
che tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa>>. E piu non fe parola.
Io li rispuosi: <<Ciacco, il tuo affanno
mi pesa si, ch'a lagrimar mi 'nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la citta partita;
s'alcun v'e giusto; e dimmi la cagione
per che l'ha tanta discordia assalita>>.
E quelli a me: <<Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccera l'altra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l'altra sormonti
con la forza di tal che teste piaggia.
Alte terra lungo tempo le fronti,
tenendo l'altra sotto gravi pesi,
come che di cio pianga o che n'aonti.
Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c'hanno i cuori accesi>>.
Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: <<Ancor vo' che mi 'nsegni
e che di piu parlar mi facci dono.
Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor si degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca
e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni,
dimmi ove sono e fa ch'io li conosca;
che gran disio mi stringe di savere
se 'l ciel li addolcia o lo 'nferno li attosca>>.
E quelli: <<Ei son tra l'anime piu nere;
diverse colpe giu li grava al fondo:
se tanto scendi, la i potrai vedere.
Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch'a la mente altrui mi rechi:
piu non ti dico e piu non ti rispondo>>.
Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco e poi chino la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi.
E 'l duca disse a me: <<Piu non si desta
di qua dal suon de l'angelica tromba,
quando verra la nimica podesta:
ciascun rivedera la trista tomba,
ripigliera sua carne e sua figura,
udira quel ch'in etterno rimbomba>>.
Si trapassammo per sozza mistura
de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;
per ch'io dissi: <<Maestro, esti tormenti
crescerann' ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran si cocenti? >>.
Ed elli a me: <<Ritorna a tua scienza,
che vuol, quanto la cosa e piu perfetta,
piu senta il bene, e cosi la doglienza.
Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion gia mai non vada,
di la piu che di qua essere aspetta>>.
Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando piu assai ch'i' non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:
quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
Inferno ? Canto VII
<<Pape Satan, pape Satan aleppe! >>,
comincio Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per confortarmi: <<Non ti noccia
la tua paura; che, poder ch'elli abbia,
non ci torra lo scender questa roccia>>.
Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia,
e disse: <<Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia.
Non e sanza cagion l'andare al cupo:
vuolsi ne l'alto, la dove Michele
fe la vendetta del superbo strupo>>.
Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele.
Cosi scendemmo ne la quarta lacca,
pigliando piu de la dolente ripa
che 'l mal de l'universo tutto insacca.
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant' io viddi?
e perche nostra colpa si ne scipa?
Come fa l'onda la sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s'intoppa,
cosi convien che qui la gente riddi.
Qui vid' i' gente piu ch'altrove troppa,
e d'una parte e d'altra, con grand' urli,
voltando pesi per forza di poppa.
Percoteansi 'ncontro; e poscia pur li
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: <<Perche tieni? >> e <<Perche burli? >>.
Cosi tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l'opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand' era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra.
E io, ch'avea lo cor quasi compunto,
dissi: <<Maestro mio, or mi dimostra
che gente e questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra>>.
Ed elli a me: <<Tutti quanti fuor guerci
si de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro l'abbaia,
quando vegnono a' due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.
Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio>>.
E io: <<Maestro, tra questi cotali
dovre' io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali>>.
Ed elli a me: <<Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fe sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni.
In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d'i ben che son commessi a la fortuna,
per che l'umana gente si rabbuffa;
che tutto l'oro ch'e sotto la luna
e che gia fu, di quest' anime stanche
non poterebbe farne posare una>>.
<<Maestro mio>>, diss' io, <<or mi di anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che e, che i ben del mondo ha si tra branche? >>.
E quelli a me: <<Oh creature sciocche,
quanta ignoranza e quella che v'offende!
Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche.
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e die lor chi conduce
si, ch'ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordino general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d'uno in altro sangue,
oltre la difension d'i senni umani;
per ch'una gente impera e l'altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che e occulto come in erba l'angue.
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dei.
Le sue permutazion non hanno triegue:
necessita la fa esser veloce;
si spesso vien chi vicenda consegue.
Quest' e colei ch'e tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella s'e beata e cio non ode:
con l'altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.
Or discendiamo omai a maggior pieta;
gia ogne stella cade che saliva
quand' io mi mossi, e 'l troppo star si vieta>>.
Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva
sovr' una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.
L'acqua era buia assai piu che persa;
e noi, in compagnia de l'onde bige,
intrammo giu per una via diversa.
In la palude va c'ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand' e disceso
al pie de le maligne piagge grige.
E io, che di mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.
Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co' denti a brano a brano.
Lo buon maestro disse: <<Figlio, or vedi
l'anime di color cui vinse l'ira;
e anche vo' che tu per certo credi
che sotto l'acqua e gente che sospira,
e fanno pullular quest' acqua al summo,
come l'occhio ti dice, u' che s'aggira.
Fitti nel limo dicon: "Tristi fummo
ne l'aere dolce che dal sol s'allegra,
portando dentro accidioso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra".
Quest' inno si gorgoglian ne la strozza,
che dir nol posson con parola integra>>.
Cosi girammo de la lorda pozza
grand' arco tra la ripa secca e 'l mezzo,
con li occhi volti a chi del fango ingozza.
Venimmo al pie d'una torre al da sezzo.
Inferno ? Canto VIII
Io dico, seguitando, ch'assai prima
che noi fossimo al pie de l'alta torre,
li occhi nostri n'andar suso a la cima
per due fiammette che i vedemmo porre,
e un'altra da lungi render cenno,
tanto ch'a pena il potea l'occhio torre.
E io mi volsi al mar di tutto 'l senno;
dissi: <<Questo che dice? e che risponde
quell' altro foco? e chi son quei che 'l fenno? >>.
Ed elli a me: <<Su per le sucide onde
gia scorgere puoi quello che s'aspetta,
se 'l fummo del pantan nol ti nasconde>>.
Corda non pinse mai da se saetta
che si corresse via per l'aere snella,
com' io vidi una nave piccioletta
venir per l'acqua verso noi in quella,
sotto 'l governo d'un sol galeoto,
che gridava: <<Or se' giunta, anima fella! >>.
<<Flegias, Flegias, tu gridi a voto>>,
disse lo mio segnore, <<a questa volta:
piu non ci avrai che sol passando il loto>>.
Qual e colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegias ne l'ira accolta.
Lo duca mio discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand' io fui dentro parve carca.
Tosto che 'l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l'antica prora
de l'acqua piu che non suol con altrui.
Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: <<Chi se' tu che vieni anzi ora? >>.
E io a lui: <<S'i' vegno, non rimango;
ma tu chi se', che si se' fatto brutto? >>.
Rispuose: <<Vedi che son un che piango>>.
E io a lui: <<Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto>>.
Allor distese al legno ambo le mani;
per che 'l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: <<Via costa con li altri cani! >>.
Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi 'l volto e disse: <<Alma sdegnosa,
benedetta colei che 'n te s'incinse!
Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bonta non e che sua memoria fregi:
cosi s'e l'ombra sua qui furiosa.
Quanti si tegnon or la su gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di se lasciando orribili dispregi! >>.
E io: <<Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago>>.
Ed elli a me: <<Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disio convien che tu goda>>.
Dopo cio poco vid' io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: <<A Filippo Argenti! >>;
e 'l fiorentino spirito bizzarro
in se medesmo si volvea co' denti.
Quivi il lasciammo, che piu non ne narro;
ma ne l'orecchie mi percosse un duolo,
per ch'io avante l'occhio intento sbarro.
Lo buon maestro disse: <<Omai, figliuolo,
s'appressa la citta c'ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo>>.
E io: <<Maestro, gia le sue meschite
la entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
fossero>>. Ed ei mi disse: <<Il foco etterno
ch'entro l'affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno>>.
Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.
Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
<<Usciteci>>, grido: <<qui e l'intrata>>.
Io vidi piu di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: <<Chi e costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente? >>.
E 'l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: <<Vien tu solo, e quei sen vada
che si ardito intro per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; che tu qui rimarrai,
che li ha' iscorta si buia contrada>>.
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
che non credetti ritornarci mai.
<<O caro duca mio, che piu di sette
volte m'hai sicurta renduta e tratto
d'alto periglio che 'ncontra mi stette,
non mi lasciar>>, diss' io, <<cosi disfatto;
e se 'l passar piu oltre ci e negato,
ritroviam l'orme nostre insieme ratto>>.
E quel segnor che li m'avea menato,
mi disse: <<Non temer; che 'l nostro passo
non ci puo torre alcun: da tal n'e dato.
Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch'i' non ti lascero nel mondo basso>>.
Cosi sen va, e quivi m'abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che si e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello ch'a lor porse;
ma ei non stette la con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que' nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri:
<<Chi m'ha negate le dolenti case! >>.
E a me disse: <<Tu, perch' io m'adiri,
non sbigottir, ch'io vincero la prova,
qual ch'a la difension dentro s'aggiri.
Questa lor tracotanza non e nova;
che gia l'usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr' essa vedestu la scritta morta:
e gia di qua da lei discende l'erta,
passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta>>.
Inferno ? Canto IX
Quel color che vilta di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
piu tosto dentro il suo novo ristrinse.
Attento si fermo com' uom ch'ascolta;
che l'occhio nol potea menare a lunga
per l'aere nero e per la nebbia folta.
<<Pur a noi converra vincer la punga>>,
comincio el, <<se non . . . Tal ne s'offerse.
Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga! >>.
I' vidi ben si com' ei ricoperse
lo cominciar con l'altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch' io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.
<<In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca? >>.
Questa question fec' io; e quei <<Di rado
incontra>>, mi rispuose, <<che di noi
faccia il cammino alcun per qual io vado.
Ver e ch'altra fiata qua giu fui,
congiurato da quella Eriton cruda
che richiamava l'ombre a' corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
ch'ella mi fece intrar dentr' a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
Quell' e 'l piu basso loco e 'l piu oscuro,
e 'l piu lontan dal ciel che tutto gira:
ben so 'l cammin; pero ti fa sicuro.
Questa palude che 'l gran puzzo spira
cigne dintorno la citta dolente,
u' non potemo intrare omai sanz' ira>>.
E altro disse, ma non l'ho a mente;
pero che l'occhio m'avea tutto tratto
ver' l'alta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l'etterno pianto,
<<Guarda>>, mi disse, <<le feroci Erine.
Quest' e Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro e Aletto;
Tesifon e nel mezzo>>; e tacque a tanto.
Con l'unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan si alto,
ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.
<<Vegna Medusa: si 'l farem di smalto>>,
dicevan tutte riguardando in giuso;
<<mal non vengiammo in Teseo l'assalto>>.
<<Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso;
che se 'l Gorgon si mostra e tu 'l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso>>.
Cosi disse 'l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.
O voi ch'avete li 'ntelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.
E gia venia su per le torbide onde
un fracasso d'un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che d'un vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz' alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
Li occhi mi sciolse e disse: <<Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo e piu acerbo>>.
Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l'acqua si dileguan tutte,
fin ch'a la terra ciascuna s'abbica,
vid' io piu di mille anime distrutte
fuggir cosi dinanzi ad un ch'al passo
passava Stige con le piante asciutte.
Dal volto rimovea quell' aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell' angoscia parea lasso.
Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fe segno
ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.
<<O cacciati del ciel, gente dispetta>>,
comincio elli in su l'orribil soglia,
<<ond' esta oltracotanza in voi s'alletta?
Perche recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che piu volte v'ha cresciuta doglia?
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo>>.
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fe motto a noi, ma fe sembiante
d'omo cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che li e davante;
e noi movemmo i piedi inver' la terra,
sicuri appresso le parole sante.
Dentro li 'ntrammo sanz' alcuna guerra;
e io, ch'avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
com' io fui dentro, l'occhio intorno invio:
e veggio ad ogne man grande campagna,
piena di duolo e di tormento rio.
Si come ad Arli, ove Rodano stagna,
si com' a Pola, presso del Carnaro
ch'Italia chiude e suoi termini bagna,
fanno i sepulcri tutt' il loco varo,
cosi facevan quivi d'ogne parte,
salvo che 'l modo v'era piu amaro;
che tra li avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran si del tutto accesi,
che ferro piu non chiede verun' arte.
Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n'uscivan si duri lamenti,
che ben parean di miseri e d'offesi.
E io: <<Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell' arche,
si fan sentir coi sospiri dolenti? >>.
E quelli a me: <<Qui son li eresiarche
con lor seguaci, d'ogne setta, e molto
piu che non credi son le tombe carche.
Simile qui con simile e sepolto,
e i monimenti son piu e men caldi>>.
E poi ch'a la man destra si fu volto,
passammo tra i martiri e li alti spaldi.
Inferno ? Canto X
Ora sen va per un secreto calle,
tra 'l muro de la terra e li martiri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
<<O virtu somma, che per li empi giri
mi volvi>>, cominciai, <<com' a te piace,
parlami, e sodisfammi a' miei disiri.
La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? gia son levati
tutt' i coperchi, e nessun guardia face>>.
E quelli a me: <<Tutti saran serrati
quando di Iosafat qui torneranno
coi corpi che la su hanno lasciati.
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l'anima col corpo morta fanno.
Pero a la dimanda che mi faci
quinc' entro satisfatto sara tosto,
e al disio ancor che tu mi taci>>.
E io: <<Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m'hai non pur mo a cio disposto>>.
<<O Tosco che per la citta del foco
vivo ten vai cosi parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio,
a la qual forse fui troppo molesto>>.
Subitamente questo suono uscio
d'una de l'arche; pero m'accostai,
temendo, un poco piu al duca mio.
Ed el mi disse: <<Volgiti! Che fai?
Vedi la Farinata che s'e dritto:
da la cintola in su tutto 'l vedrai>>.
Io avea gia il mio viso nel suo fitto;
ed el s'ergea col petto e con la fronte
com' avesse l'inferno a gran dispitto.
E l'animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: <<Le parole tue sien conte>>.
Com' io al pie de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimando: <<Chi fuor li maggior tui? >>.
Io ch'era d'ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel' apersi;
ond' ei levo le ciglia un poco in suso;
poi disse: <<Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
si che per due fiate li dispersi>>.
<<S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte>>,
rispuos' io lui, <<l'una e l'altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell' arte>>.
Allor surse a la vista scoperchiata
un'ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s'era in ginocchie levata.
Dintorno mi guardo, come talento
avesse di veder s'altri era meco;
e poi che 'l sospecciar fu tutto spento,
piangendo disse: <<Se per questo cieco
carcere vai per altezza d'ingegno,
mio figlio ov' e? e perche non e teco? >>.
E io a lui: <<Da me stesso non vegno:
colui ch'attende la, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno>>.
Le sue parole e 'l modo de la pena
m'avean di costui gia letto il nome;
pero fu la risposta cosi piena.
Di subito drizzato grido: <<Come?
dicesti "elli ebbe"? non viv' elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume? >>.
Quando s'accorse d'alcuna dimora
ch'io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e piu non parve fora.
Ma quell' altro magnanimo, a cui posta
restato m'era, non muto aspetto,
ne mosse collo, ne piego sua costa;
e se continuando al primo detto,
<<S'elli han quell' arte>>, disse, <<male appresa,
cio mi tormenta piu che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell' arte pesa.
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perche quel popolo e si empio
incontr' a' miei in ciascuna sua legge? >>.
Ond' io a lui: <<Lo strazio e 'l grande scempio
che fece l'Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio>>.
Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso,
<<A cio non fu' io sol>>, disse, <<ne certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu' io solo, la dove sofferto
fu per ciascun di torre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto>>.
<<Deh, se riposi mai vostra semenza>>,
prega' io lui, <<solvetemi quel nodo
che qui ha 'nviluppata mia sentenza.
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che 'l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo>>.
<<Noi veggiam, come quei c'ha mala luce,
le cose>>, disse, <<che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s'appressano o son, tutto e vano
nostro intelletto; e s'altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.
Pero comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta>>.
Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: <<Or direte dunque a quel caduto
che 'l suo nato e co' vivi ancor congiunto;
e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che 'l fei perche pensava
gia ne l'error che m'avete soluto>>.
E gia 'l maestro mio mi richiamava;
per ch'i' pregai lo spirto piu avaccio
che mi dicesse chi con lu' istava.
Dissemi: <<Qui con piu di mille giaccio:
qua dentro e 'l secondo Federico
e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio>>.
Indi s'ascose; e io inver' l'antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.
Elli si mosse; e poi, cosi andando,
mi disse: <<Perche se' tu si smarrito? >>.
E io li sodisfeci al suo dimando.
<<La mente tua conservi quel ch'udito
hai contra te>>, mi comando quel saggio;
<<e ora attendi qui>>, e drizzo 'l dito:
<<quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell' occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il viaggio>>.
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo
per un sentier ch'a una valle fiede,
che 'nfin la su facea spiacer suo lezzo.
Inferno ? Canto XI
In su l'estremita d'un'alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,
venimmo sopra piu crudele stipa;
e quivi, per l'orribile soperchio
del puzzo che 'l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio
d'un grand' avello, ov' io vidi una scritta
che dicea: 'Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta'.
<<Lo nostro scender conviene esser tardo,
si che s'ausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo>>.
Cosi 'l maestro; e io <<Alcun compenso>>,
dissi lui, <<trova che 'l tempo non passi
perduto>>. Ed elli: <<Vedi ch'a cio penso>>.
<<Figliuol mio, dentro da cotesti sassi>>,
comincio poi a dir, <<son tre cerchietti
di grado in grado, come que' che lassi.
Tutti son pien di spirti maladetti;
ma perche poi ti basti pur la vista,
intendi come e perche son costretti.
D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista,
ingiuria e 'l fine, ed ogne fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista.
Ma perche frode e de l'uom proprio male,
piu spiace a Dio; e pero stan di sotto
li frodolenti, e piu dolor li assale.
Di violenti il primo cerchio e tutto;
ma perche si fa forza a tre persone,
in tre gironi e distinto e costrutto.
A Dio, a se, al prossimo si pone
far forza, dico in loro e in lor cose,
come udirai con aperta ragione.
Morte per forza e ferute dogliose
nel prossimo si danno, e nel suo avere
ruine, incendi e tollette dannose;
onde omicide e ciascun che mal fiere,
guastatori e predon, tutti tormenta
lo giron primo per diverse schiere.
Puote omo avere in se man violenta
e ne' suoi beni; e pero nel secondo
giron convien che sanza pro si penta
qualunque priva se del vostro mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
e piange la dov' esser de' giocondo.
Puossi far forza ne la deitade,
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua bontade;
e pero lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.
La frode, ond' ogne coscienza e morsa,
puo l'omo usare in colui che 'n lui fida
e in quel che fidanza non imborsa.
Questo modo di retro par ch'incida
pur lo vinco d'amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s'annida
ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsita, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.
Per l'altro modo quell' amor s'oblia
che fa natura, e quel ch'e poi aggiunto,
di che la fede spezial si cria;
onde nel cerchio minore, ov' e 'l punto
de l'universo in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno e consunto>>.
E io: <<Maestro, assai chiara procede
la tua ragione, e assai ben distingue
questo baratro e 'l popol ch'e' possiede.
Ma dimmi: quei de la palude pingue,
che mena il vento, e che batte la pioggia,
e che s'incontran con si aspre lingue,
perche non dentro da la citta roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perche sono a tal foggia? >>.
Ed elli a me <<Perche tanto delira>>,
disse, <<lo 'ngegno tuo da quel che sole?
o ver la mente dove altrove mira?
Non ti rimembra di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che 'l ciel non vole,
incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta?
Se tu riguardi ben questa sentenza,
e rechiti a la mente chi son quelli
che su di fuor sostegnon penitenza,
tu vedrai ben perche da questi felli
sien dipartiti, e perche men crucciata
la divina vendetta li martelli>>.
<<O sol che sani ogne vista turbata,
tu mi contenti si quando tu solvi,
che, non men che saver, dubbiar m'aggrata.
Ancora in dietro un poco ti rivolvi>>,
diss' io, <<la dove di' ch'usura offende
la divina bontade, e 'l groppo solvi>>.
<<Filosofia>>, mi disse, <<a chi la 'ntende,
nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende
dal divino 'ntelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,
che l'arte vostra quella, quanto pote,
segue, come 'l maestro fa 'l discente;
si che vostr' arte a Dio quasi e nepote.
Da queste due, se tu ti rechi a mente
lo Genesi dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente;
e perche l'usuriere altra via tene,
per se natura e per la sua seguace
dispregia, poi ch'in altro pon la spene.
Ma seguimi oramai che 'l gir mi piace;
che i Pesci guizzan su per l'orizzonta,
e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace,
e 'l balzo via la oltra si dismonta>>.
Inferno ? Canto XII
Era lo loco ov' a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v'er' anco,
tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva.
Qual e quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l'Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano e si la roccia discoscesa,
ch'alcuna via darebbe a chi su fosse:
cotal di quel burrato era la scesa;
e 'n su la punta de la rotta lacca
l'infamia di Creti era distesa
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, se stesso morse,
si come quei cui l'ira dentro fiacca.
Lo savio mio inver' lui grido: <<Forse
tu credi che qui sia 'l duca d'Atene,
che su nel mondo la morte ti porse?
Partiti, bestia, che questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene>>.
Qual e quel toro che si slaccia in quella
c'ha ricevuto gia 'l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e la saltella,
vid' io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto grido: <<Corri al varco;
mentre ch'e' 'nfuria, e buon che tu ti cale>>.
Cosi prendemmo via giu per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.
Io gia pensando; e quei disse: <<Tu pensi
forse a questa ruina, ch'e guardata
da quell' ira bestial ch'i' ora spensi.
Or vo' che sappi che l'altra fiata
ch'i' discesi qua giu nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levo a Dite del cerchio superno,
da tutte parti l'alta valle feda
tremo si, ch'i' pensai che l'universo
sentisse amor, per lo qual e chi creda
piu volte il mondo in caosso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia,
qui e altrove, tal fece riverso.
Ma ficca li occhi a valle, che s'approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per violenza in altrui noccia>>.
Oh cieca cupidigia e ira folle,
che si ci sproni ne la vita corta,
e ne l'etterna poi si mal c'immolle!
Io vidi un'ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto 'l piano abbraccia,
secondo ch'avea detto la mia scorta;
e tra 'l pie de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.
Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;
e l'un grido da lungi: <<A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l'arco tiro>>.
Lo mio maestro disse: <<La risposta
farem noi a Chiron costa di presso:
mal fu la voglia tua sempre si tosta>>.
Poi mi tento, e disse: <<Quelli e Nesso,
che mori per la bella Deianira,
e fe di se la vendetta elli stesso.
E quel di mezzo, ch'al petto si mira,
e il gran Chiron, il qual nodri Achille;
quell' altro e Folo, che fu si pien d'ira.
Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue piu che sua colpa sortille>>.
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chiron prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.
Quando s'ebbe scoperta la gran bocca,
disse a' compagni: <<Siete voi accorti
che quel di retro move cio ch'el tocca?
Cosi non soglion far li pie d'i morti>>.
E 'l mio buon duca, che gia li er' al petto,
dove le due nature son consorti,
rispuose: <<Ben e vivo, e si soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessita 'l ci 'nduce, e non diletto.
Tal si parti da cantare alleluia
che mi commise quest' officio novo:
non e ladron, ne io anima fuia.
Ma per quella virtu per cu' io movo
li passi miei per si selvaggia strada,
danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo,
e che ne mostri la dove si guada,
e che porti costui in su la groppa,
che non e spirto che per l'aere vada>>.
Chiron si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: <<Torna, e si li guida,
e fa cansar s'altra schiera v'intoppa>>.
Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e 'l gran centauro disse: <<E' son tiranni
che dier nel sangue e ne l'aver di piglio.
Quivi si piangon li spietati danni;
quivi e Alessandro, e Dionisio fero
che fe Cicilia aver dolorosi anni.
E quella fronte c'ha 'l pel cosi nero,
e Azzolino; e quell' altro ch'e biondo,
e Opizzo da Esti, il qual per vero
fu spento dal figliastro su nel mondo>>.
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
<<Questi ti sia or primo, e io secondo>>.
Poco piu oltre il centauro s'affisse
sovr' una gente che 'nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.
Mostrocci un'ombra da l'un canto sola,
dicendo: <<Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola>>.
Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto 'l casso;
e di costoro assai riconobb' io.
Cosi a piu a piu si facea basso
quel sangue, si che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo.
<<Si come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema>>,
disse 'l centauro, <<voglio che tu credi
che da quest' altra a piu a piu giu prema
lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.
La divina giustizia di qua punge
quell' Attila che fu flagello in terra,
e Pirro e Sesto; e in etterno munge
le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra>>.
Poi si rivolse e ripassossi 'l guazzo.
Inferno ? Canto XIII
Non era ancor di la Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tosco.
Non han si aspri sterpi ne si folti
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi colti.
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late, e colli e visi umani,
pie con artigli, e pennuto 'l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.
E 'l buon maestro <<Prima che piu entre,
sappi che se' nel secondo girone>>,
mi comincio a dire, <<e sarai mentre
che tu verrai ne l'orribil sabbione.
Pero riguarda ben; si vederai
cose che torrien fede al mio sermone>>.
Io sentia d'ogne parte trarre guai
e non vedea persona che 'l facesse;
per ch'io tutto smarrito m'arrestai.
Cred' io ch'ei credette ch'io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.
Pero disse 'l maestro: <<Se tu tronchi
qualche fraschetta d'una d'este piante,
li pensier c'hai si faran tutti monchi>>.
Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e 'l tronco suo grido: <<Perche mi schiante? >>.
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricomincio a dir: <<Perche mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb' esser la tua man piu pia,
se state fossimo anime di serpi>>.
Come d'un stizzo verde ch'arso sia
da l'un de' capi, che da l'altro geme
e cigola per vento che va via,
si de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond' io lasciai la cima
cadere, e stetti come l'uom che teme.
<<S'elli avesse potuto creder prima>>,
rispuose 'l savio mio, <<anima lesa,
cio c'ha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti, si che 'n vece
d'alcun' ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo su, dove tornar li lece>>.
E 'l tronco: <<Si col dolce dir m'adeschi,
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
perch' io un poco a ragionar m'inveschi.
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, si soavi,
che dal secreto suo quasi ogn' uom tolsi;
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.
La meretrice che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammo contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar si Augusto,
che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.
L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici d'esto legno
vi giuro che gia mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d'onor si degno.
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che 'nvidia le diede>>.
Un poco attese, e poi <<Da ch'el si tace>>,
disse 'l poeta a me, <<non perder l'ora;
ma parla, e chiedi a lui, se piu ti piace>>.
Ond' io a lui: <<Domandal tu ancora
di quel che credi ch'a me satisfaccia;
ch'i' non potrei, tanta pieta m'accora>>.
Percio ricomincio: <<Se l'om ti faccia
liberamente cio che 'l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia
di dirne come l'anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s'alcuna mai di tai membra si spiega>>.
Allor soffio il tronco forte, e poi
si converti quel vento in cotal voce:
<<Brievemente sara risposto a voi.
Quando si parte l'anima feroce
dal corpo ond' ella stessa s'e disvelta,
Minos la manda a la settima foce.
Cade in la selva, e non l'e parte scelta;
ma la dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.
Surge in vermena e in pianta silvestra:
l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.
Come l'altre verrem per nostre spoglie,
ma non pero ch'alcuna sen rivesta,
che non e giusto aver cio ch'om si toglie.
Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta>>.
Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch'altro ne volesse dire,
quando noi fummo d'un romor sorpresi,
similemente a colui che venire
sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
ch'ode le bestie, e le frasche stormire.
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo si forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.
Quel dinanzi: <<Or accorri, accorri, morte! >>.
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: <<Lano, si non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo! >>.
E poi che forse li fallia la lena,
di se e d'un cespuglio fece un groppo.
Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch'uscisser di catena.
In quel che s'appiatto miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.
<<O Iacopo>>, dicea, <<da Santo Andrea,
che t'e giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea? >>.
Quando 'l maestro fu sovr' esso fermo,
disse: <<Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo? >>.
Ed elli a noi: <<O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c'ha le mie fronde si da me disgiunte,
raccoglietele al pie del tristo cesto.
I' fui de la citta che nel Batista
muto 'l primo padrone; ond' ei per questo
sempre con l'arte sua la fara trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,
que' cittadin che poi la rifondarno
sovra 'l cener che d'Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
Io fei gibetto a me de le mie case>>.
Inferno ? Canto XIV
Poi che la carita del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende'le a colui, ch'era gia fioco.
Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.
A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.
La dolorosa selva l'e ghirlanda
intorno, come 'l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa.
Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d'altra foggia fatta che colei
che fu da' pie di Caton gia soppressa.
O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
cio che fu manifesto a li occhi mei!
D'anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.
Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continuamente.
Quella che giva 'ntorno era piu molta,
e quella men che giacea al tormento,
ma piu al duolo avea la lingua sciolta.
Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.
Quali Alessandro in quelle parti calde
d'India vide sopra 'l suo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,
per ch'ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, accio che lo vapore
mei si stingueva mentre ch'era solo:
tale scendeva l'etternale ardore;
onde la rena s'accendea, com' esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.
Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da se l'arsura fresca.
I' cominciai: <<Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che ' demon duri
ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci,
chi e quel grande che non par che curi
lo 'ncendio e giace dispettoso e torto,
si che la pioggia non par che 'l marturi? >>.
E quel medesmo, che si fu accorto
ch'io domandava il mio duca di lui,
grido: <<Qual io fui vivo, tal son morto.
Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l'ultimo di percosso fui;
o s'elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta! ",
si com' el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra>>.
Allora il duca mio parlo di forza
tanto, ch'i' non l'avea si forte udito:
<<O Capaneo, in cio che non s'ammorza
la tua superbia, se' tu piu punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito>>.
Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: <<Quei fu l'un d'i sette regi
ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia
Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi;
ma, com' io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.
Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti>>.
Tacendo divenimmo la 've spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giu sen giva quello.
Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt' era 'n pietra, e ' margini dallato;
per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici.
<<Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno e negato,
cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com' e 'l presente rio,
che sovra se tutte fiammelle ammorta>>.
Queste parole fuor del duca mio;
per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto
di cui largito m'avea il disio.
<<In mezzo mar siede un paese guasto>>,
diss' elli allora, <<che s'appella Creta,
sotto 'l cui rege fu gia 'l mondo casto.
Una montagna v'e che gia fu lieta
d'acqua e di fronde, che si chiamo Ida;
or e diserta come cosa vieta.
Rea la scelse gia per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida.
