Tu eri allor si del tutto impedito
sovra colui che gia tenne Altaforte,
che non guardasti in la, si fu partito>>.
sovra colui che gia tenne Altaforte,
che non guardasti in la, si fu partito>>.
Dante - La Divina Commedia
E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio
che fu per li Giudei mala sementa>>.
Allor vid' io maravigliar Virgilio
sovra colui ch'era disteso in croce
tanto vilmente ne l'etterno essilio.
Poscia drizzo al frate cotal voce:
<<Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
s'a la man destra giace alcuna foce
onde noi amendue possiamo uscirci,
sanza costrigner de li angeli neri
che vegnan d'esto fondo a dipartirci>>.
Rispuose adunque: <<Piu che tu non speri
s'appressa un sasso che da la gran cerchia
si move e varca tutt' i vallon feri,
salvo che 'n questo e rotto e nol coperchia;
montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia>>.
Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: <<Mal contava la bisogna
colui che i peccator di qua uncina>>.
E 'l frate: <<Io udi' gia dire a Bologna
del diavol vizi assai, tra ' quali udi'
ch'elli e bugiardo, e padre di menzogna>>.
Appresso il duca a gran passi sen gi,
turbato un poco d'ira nel sembiante;
ond' io da li 'ncarcati mi parti'
dietro a le poste de le care piante.
Inferno ? Canto XXIV
In quella parte del giovanetto anno
che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra
e gia le notti al mezzo di sen vanno,
quando la brina in su la terra assempra
l'imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra,
lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond' ei si batte l'anca,
ritorna in casa, e qua e la si lagna,
come 'l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna,
veggendo 'l mondo aver cangiata faccia
in poco d'ora, e prende suo vincastro
e fuor le pecorelle a pascer caccia.
Cosi mi fece sbigottir lo mastro
quand' io li vidi si turbar la fronte,
e cosi tosto al mal giunse lo 'mpiastro;
che, come noi venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
dolce ch'io vidi prima a pie del monte.
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio.
E come quei ch'adopera ed estima,
che sempre par che 'nnanzi si proveggia,
cosi, levando me su ver' la cima
d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia
dicendo: <<Sovra quella poi t'aggrappa;
ma tenta pria s'e tal ch'ella ti reggia>>.
Non era via da vestito di cappa,
che noi a pena, ei lieve e io sospinto,
potavam su montar di chiappa in chiappa.
E se non fosse che da quel precinto
piu che da l'altro era la costa corta,
non so di lui, ma io sarei ben vinto.
Ma perche Malebolge inver' la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta
che l'una costa surge e l'altra scende;
noi pur venimmo al fine in su la punta
onde l'ultima pietra si scoscende.
La lena m'era del polmon si munta
quand' io fui su, ch'i' non potea piu oltre,
anzi m'assisi ne la prima giunta.
<<Omai convien che tu cosi ti spoltre>>,
disse 'l maestro; <<che, seggendo in piuma,
in fama non si vien, ne sotto coltre;
sanza la qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di se lascia,
qual fummo in aere e in acqua la schiuma.
E pero leva su; vinci l'ambascia
con l'animo che vince ogne battaglia,
se col suo grave corpo non s'accascia.
Piu lunga scala convien che si saglia;
non basta da costoro esser partito.
Se tu mi 'ntendi, or fa si che ti vaglia>>.
Leva'mi allor, mostrandomi fornito
meglio di lena ch'i' non mi sentia,
e dissi: <<Va, ch'i' son forte e ardito>>.
Su per lo scoglio prendemmo la via,
ch'era ronchioso, stretto e malagevole,
ed erto piu assai che quel di pria.
Parlando andava per non parer fievole;
onde una voce usci de l'altro fosso,
a parole formar disconvenevole.
Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso
fossi de l'arco gia che varca quivi;
ma chi parlava ad ire parea mosso.
Io era volto in giu, ma li occhi vivi
non poteano ire al fondo per lo scuro;
per ch'io: <<Maestro, fa che tu arrivi
da l'altro cinghio e dismontiam lo muro;
che, com' i' odo quinci e non intendo,
cosi giu veggio e neente affiguro>>.
<<Altra risposta>>, disse, <<non ti rendo
se non lo far; che la dimanda onesta
si de' seguir con l'opera tacendo>>.
Noi discendemmo il ponte da la testa
dove s'aggiugne con l'ottava ripa,
e poi mi fu la bolgia manifesta:
e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di si diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa.
Piu non si vanti Libia con sua rena;
che se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,
ne tante pestilenzie ne si ree
mostro gia mai con tutta l'Etiopia
ne con cio che di sopra al Mar Rosso ee.
Tra questa cruda e tristissima copia
correan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:
con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate.
Ed ecco a un ch'era da nostra proda,
s'avvento un serpente che 'l trafisse
la dove 'l collo a le spalle s'annoda.
Ne O si tosto mai ne I si scrisse,
com' el s'accese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra si distrutto,
la polver si raccolse per se stessa
e 'n quel medesmo ritorno di butto.
Cosi per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;
erba ne biado in sua vita non pasce,
ma sol d'incenso lagrime e d'amomo,
e nardo e mirra son l'ultime fasce.
E qual e quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch'a terra il tira,
o d'altra oppilazion che lega l'omo,
quando si leva, che 'ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch'elli ha sofferta, e guardando sospira:
tal era 'l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant' e severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!
Lo duca il domando poi chi ello era;
per ch'ei rispuose: <<Io piovvi di Toscana,
poco tempo e, in questa gola fiera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
si come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana>>.
E io al duca: <<Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giu 'l pinse;
ch'io 'l vidi uomo di sangue e di crucci>>.
E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse,
ma drizzo verso me l'animo e 'l volto,
e di trista vergogna si dipinse;
poi disse: <<Piu mi duol che tu m'hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l'altra vita tolto.
Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giu son messo tanto perch' io fui
ladro a la sagrestia d'i belli arredi,
e falsamente gia fu apposto altrui.
Ma perche di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da' luoghi bui,
apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
Pistoia in pria d'i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch'e di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetuosa e agra
sovra Campo Picen fia combattuto;
ond' ei repente spezzera la nebbia,
si ch'ogne Bianco ne sara feruto.
E detto l'ho perche doler ti debbia! >>.
Inferno ? Canto XXV
Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzo con amendue le fiche,
gridando: <<Togli, Dio, ch'a te le squadro! >>.
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch' una li s'avvolse allora al collo,
come dicesse 'Non vo' che piu diche';
e un'altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo se stessa si dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.
Ahi Pistoia, Pistoia, che non stanzi
d'incenerarti si che piu non duri,
poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?
Per tutt' i cerchi de lo 'nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giu da' muri.
El si fuggi che non parlo piu verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: <<Ov' e, ov' e l'acerbo? >>.
Maremma non cred' io che tante n'abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia.
Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l'ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s'intoppa.
Lo mio maestro disse: <<Questi e Caco,
che, sotto 'l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco.
Non va co' suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch'elli ebbe a vicino;
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d'Ercule, che forse
gliene die cento, e non senti le diece>>.
Mentre che si parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de' quai ne io ne 'l duca mio s'accorse,
se non quando gridar: <<Chi siete voi? >>;
per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi.
Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l'un nomar un altro convenette,
dicendo: <<Cianfa dove fia rimaso? >>;
per ch'io, accio che 'l duca stesse attento,
mi puosi 'l dito su dal mento al naso.
Se tu se' or, lettore, a creder lento
cio ch'io diro, non sara maraviglia,
che io che 'l vidi, a pena il mi consento.
Com' io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei pie si lancia
dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.
Co' pie di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterior le braccia prese;
poi li addento e l'una e l'altra guancia;
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra 'mbedue
e dietro per le ren su la ritese.
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber si, come l'orribil fiera
per l'altrui membra avviticchio le sue.
Poi s'appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
ne l'un ne l'altro gia parea quel ch'era:
come procede innanzi da l'ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non e nero ancora e 'l bianco more.
Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno
gridava: <<Ome, Agnel, come ti muti!
Vedi che gia non se' ne due ne uno>>.
Gia eran li due capi un divenuti,
quando n'apparver due figure miste
in una faccia, ov' eran due perduti.
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso
divenner membra che non fuor mai viste.
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l'imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo.
Come 'l ramarro sotto la gran fersa
dei di canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa,
si pareva, venendo verso l'epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe;
e quella parte onde prima e preso
nostro alimento, a l'un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso.
Lo trafitto 'l miro, ma nulla disse;
anzi, co' pie fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l'assalisse.
Elli 'l serpente e quei lui riguardava;
l'un per la piaga e l'altro per la bocca
fummavan forte, e 'l fummo si scontrava.
Taccia Lucano ormai la dov' e' tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch'or si scocca.
Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio,
che se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo 'nvidio;
che due nature mai a fronte a fronte
non trasmuto si ch'amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.
Insieme si rispuosero a tai norme,
che 'l serpente la coda in forca fesse,
e 'l feruto ristrinse insieme l'orme.
Le gambe con le cosce seco stesse
s'appiccar si, che 'n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse.
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva la, e la sua pelle
si facea molle, e quella di la dura.
Io vidi intrar le braccia per l'ascelle,
e i due pie de la fiera, ch'eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li pie di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l'uom cela,
e 'l misero del suo n'avea due porti.
Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela
di color novo, e genera 'l pel suso
per l'una parte e da l'altra il dipela,
l'un si levo e l'altro cadde giuso,
non torcendo pero le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso.
Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie,
e di troppa matera ch'in la venne
uscir li orecchi de le gote scempie;
cio che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fe naso a la faccia
e le labbra ingrosso quanto convenne.
Quel che giacea, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia;
e la lingua, ch'avea unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta.
L'anima ch'era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l'altro dietro a lui parlando sputa.
Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l'altro: <<I' vo' che Buoso corra,
com' ho fatt' io, carpon per questo calle>>.
Cosi vid' io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novita se fior la penna abborra.
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l'animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato;
l'altr' era quel che tu, Gaville, piagni.
Inferno ? Canto XXVI
Godi, Fiorenza, poi che se' si grande
che per mare e per terra batti l'ali,
e per lo 'nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.
E se gia fosse, non saria per tempo.
Cosi foss' ei, da che pur esser dee!
che piu mi gravera, com' piu m'attempo.
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n'avea fatto iborni a scender pria,
rimonto 'l duca mio e trasse mee;
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio
lo pie sanza la man non si spedia.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a cio ch'io vidi,
e piu lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio,
perche non corra che virtu nol guidi;
si che, se stella bona o miglior cosa
m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi.
Quante 'l villan ch'al poggio si riposa,
nel tempo che colui che 'l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giu per la vallea,
forse cola dov' e' vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
l'ottava bolgia, si com' io m'accorsi
tosto che fui la 've 'l fondo parea.
E qual colui che si vengio con li orsi
vide 'l carro d'Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea si con li occhi seguire,
ch'el vedesse altro che la fiamma sola,
si come nuvoletta, in su salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, che nessuna mostra 'l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra 'l ponte a veder surto,
si che s'io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giu sanz' esser urto.
E 'l duca che mi vide tanto atteso,
disse: <<Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch'elli e inceso>>.
<<Maestro mio>>, rispuos' io, <<per udirti
son io piu certo; ma gia m'era avviso
che cosi fosse, e gia voleva dirti:
chi e 'n quel foco che vien si diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov' Eteocle col fratel fu miso? >>.
Rispuose a me: <<La dentro si martira
Ulisse e Diomede, e cosi insieme
a la vendetta vanno come a l'ira;
e dentro da la lor fiamma si geme
l'agguato del caval che fe la porta
onde usci de' Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l'arte per che, morta,
Deidamia ancor si duol d'Achille,
e del Palladio pena vi si porta>>.
<<S'ei posson dentro da quelle faville
parlar>>, diss' io, <<maestro, assai ten priego
e ripriego, che 'l priego vaglia mille,
che non mi facci de l'attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver' lei mi piego! >>.
Ed elli a me: <<La tua preghiera e degna
di molta loda, e io pero l'accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto
cio che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi,
perch' e' fuor greci, forse del tuo detto>>.
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
<<O voi che siete due dentro ad un foco,
s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,
s'io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l'un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi>>.
Lo maggior corno de la fiamma antica
comincio a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e la menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gitto voce di fuori e disse: <<Quando
mi diparti' da Circe, che sottrasse
me piu d'un anno la presso a Gaeta,
prima che si Enea la nomasse,
ne dolcezza di figlio, ne la pieta
del vecchio padre, ne 'l debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,
vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna.
Io e ' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov' Ercule segno li suoi riguardi
accio che l'uom piu oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l'altra gia m'avea lasciata Setta.
"O frati", dissi "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'e del rimanente
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".
Li miei compagni fec' io si aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle gia de l'altro polo
vedea la notte, e 'l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,
quando n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto torno in pianto;
che de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fe girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giu, com' altrui piacque,
infin che 'l mar fu sovra noi richiuso>>.
Inferno ? Canto XXVII
Gia era dritta in su la fiamma e queta
per non dir piu, e gia da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,
quand' un'altra, che dietro a lei venia,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n'uscia.
Come 'l bue cicilian che mugghio prima
col pianto di colui, e cio fu dritto,
che l'avea temperato con sua lima,
mugghiava con la voce de l'afflitto,
si che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto;
cosi, per non aver via ne forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertian le parole grame.
Ma poscia ch'ebber colto lor viaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,
udimmo dire: <<O tu a cu' io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo "Istra ten va, piu non t'adizzo",
perch' io sia giunto forse alquanto tardo,
non t'incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!
Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se' di quella dolce terra
latina ond' io mia colpa tutta reco,
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
ch'io fui d'i monti la intra Orbino
e 'l giogo di che Tever si diserra>>.
Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tento di costa,
dicendo: <<Parla tu; questi e latino>>.
E io, ch'avea gia pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
<<O anima che se' la giu nascosta,
Romagna tua non e, e non fu mai,
sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni;
ma 'n palese nessuna or vi lasciai.
Ravenna sta come stata e molt' anni:
l'aguglia da Polenta la si cova,
si che Cervia ricuopre co' suoi vanni.
La terra che fe gia la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.
E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
la dove soglion fan d'i denti succhio.
Le citta di Lamone e di Santerno
conduce il lioncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.
E quella cu' il Savio bagna il fianco,
cosi com' ella sie' tra 'l piano e 'l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.
Ora chi se', ti priego che ne conte;
non esser duro piu ch'altri sia stato,
se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte>>.
Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l'aguta punta mosse
di qua, di la, e poi die cotal fiato:
<<S'i' credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza piu scosse;
ma pero che gia mai di questo fondo
non torno vivo alcun, s'i' odo il vero,
sanza tema d'infamia ti rispondo.
Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, si cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venia intero,
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda! ,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che m'intenda.
Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe
che la madre mi die, l'opere mie
non furon leonine, ma di volpe.
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e si menai lor arte,
ch'al fine de la terra il suono uscie.
Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,
cio che pria mi piacea, allor m'increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
Lo principe d'i novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin ne con Giudei,
che ciascun suo nimico era cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
ne mercatante in terra di Soldano,
ne sommo officio ne ordini sacri
guardo in se, ne in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti piu macri.
Ma come Costantin chiese Silvestro
d'entro Siratti a guerir de la lebbre,
cosi mi chiese questi per maestro
a guerir de la sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
perche le sue parole parver ebbre.
E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti;
finor t'assolvo, e tu m'insegna fare
si come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss' io serrare e diserrare,
come tu sai; pero son due le chiavi
che 'l mio antecessor non ebbe care".
Allor mi pinser li argomenti gravi
la 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio,
e dissi: "Padre, da che tu mi lavi
di quel peccato ov' io mo cader deggio,
lunga promessa con l'attender corto
ti fara triunfar ne l'alto seggio".
Francesco venne poi, com' io fu' morto,
per me; ma un d'i neri cherubini
li disse: "Non portar: non mi far torto.
Venir se ne dee giu tra ' miei meschini
perche diede 'l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a' crini;
ch'assolver non si puo chi non si pente,
ne pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente".
Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: "Forse
tu non pensavi ch'io loico fossi! ".
A Minos mi porto; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,
disse: "Questi e d'i rei del foco furo";
per ch'io la dove vedi son perduto,
e si vestito, andando, mi rancuro>>.
Quand' elli ebbe 'l suo dir cosi compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo 'l corno aguto.
Noi passamm' oltre, e io e 'l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l'altr' arco
che cuopre 'l fosso in che si paga il fio
a quei che scommettendo acquistan carco.
Inferno ? Canto XXVIII
Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch'i' ora vidi, per narrar piu volte?
Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
c'hanno a tanto comprender poco seno.
S'el s'aunasse ancor tutta la gente
che gia, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente
per li Troiani e per la lunga guerra
che de l'anella fe si alte spoglie,
come Livio scrive, che non erra,
con quella che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie
a Ceperan, la dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e la da Tagliacozzo,
dove sanz' arme vinse il vecchio Alardo;
e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, d'aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.
Gia veggia, per mezzul perdere o lulla,
com' io vidi un, cosi non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e 'l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder m'attacco,
guardommi e con le man s'aperse il petto,
dicendo: <<Or vedi com' io mi dilacco!
vedi come storpiato e Maometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Ali,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e pero son fessi cosi.
Un diavolo e qua dietro che n'accisma
si crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,
quand' avem volta la dolente strada;
pero che le ferite son richiuse
prima ch'altri dinanzi li rivada.
Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse,
forse per indugiar d'ire a la pena
ch'e giudicata in su le tue accuse? >>.
<<Ne morte 'l giunse ancor, ne colpa 'l mena>>,
rispuose 'l mio maestro, <<a tormentarlo;
ma per dar lui esperienza piena,
a me, che morto son, convien menarlo
per lo 'nferno qua giu di giro in giro;
e quest' e ver cosi com' io ti parlo>>.
Piu fuor di cento che, quando l'udiro,
s'arrestaron nel fosso a riguardarmi
per maraviglia, obliando il martiro.
<<Or di a fra Dolcin dunque che s'armi,
tu che forse vedra' il sole in breve,
s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,
si di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch'altrimenti acquistar non saria leve>>.
Poi che l'un pie per girsene sospese,
Maometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.
Un altro, che forata avea la gola
e tronco 'l naso infin sotto le ciglia,
e non avea mai ch'una orecchia sola,
ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri apri la canna,
ch'era di fuor d'ogne parte vermiglia,
e disse: <<O tu cui colpa non condanna
e cu' io vidi su in terra latina,
se troppa simiglianza non m'inganna,
rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabo dichina.
E fa saper a' due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l'antiveder qui non e vano,
gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d'un tiranno fello.
Tra l'isola di Cipri e di Maiolica
non vide mai si gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica.
Quel traditor che vede pur con l'uno,
e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno,
fara venirli a parlamento seco;
poi fara si, ch'al vento di Focara
non sara lor mestier voto ne preco>>.
E io a lui: <<Dimostrami e dichiara,
se vuo' ch'i' porti su di te novella,
chi e colui da la veduta amara>>.
Allor puose la mano a la mascella
d'un suo compagno e la bocca li aperse,
gridando: <<Questi e desso, e non favella.
Questi, scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che 'l fornito
sempre con danno l'attender sofferse>>.
Oh quanto mi pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza
Curio, ch'a dir fu cosi ardito!
E un ch'avea l'una e l'altra man mozza,
levando i moncherin per l'aura fosca,
si che 'l sangue facea la faccia sozza,
grido: <<Ricordera'ti anche del Mosca,
che disse, lasso! , "Capo ha cosa fatta",
che fu mal seme per la gente tosca>>.
E io li aggiunsi: <<E morte di tua schiatta>>;
per ch'elli, accumulando duol con duolo,
sen gio come persona trista e matta.
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa ch'io avrei paura,
sanza piu prova, di contarla solo;
se non che coscienza m'assicura,
la buona compagnia che l'uom francheggia
sotto l'asbergo del sentirsi pura.
Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia,
un busto sanza capo andar si come
andavan li altri de la trista greggia;
e 'l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: <<Oh me! >>.
Di se facea a se stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com' esser puo, quei sa che si governa.
Quando diritto al pie del ponte fue,
levo 'l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue,
che fuoro: <<Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s'alcuna e grande come questa.
E perche tu di me novella porti,
sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma' conforti.
Io feci il padre e 'l figlio in se ribelli;
Achitofel non fe piu d'Absalone
e di David coi malvagi punzelli.
Perch' io parti' cosi giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso! ,
dal suo principio ch'e in questo troncone.
Cosi s'osserva in me lo contrapasso>>.
Inferno ? Canto XXIX
La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie si inebriate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.
Ma Virgilio mi disse: <<Che pur guate?
perche la vista tua pur si soffolge
la giu tra l'ombre triste smozzicate?
Tu non hai fatto si a l'altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.
E gia la luna e sotto i nostri piedi;
lo tempo e poco omai che n'e concesso,
e altro e da veder che tu non vedi>>.
<<Se tu avessi>>, rispuos' io appresso,
<<atteso a la cagion per ch'io guardava,
forse m'avresti ancor lo star dimesso>>.
Parte sen giva, e io retro li andava,
lo duca, gia faccendo la risposta,
e soggiugnendo: <<Dentro a quella cava
dov' io tenea or li occhi si a posta,
credo ch'un spirto del mio sangue pianga
la colpa che la giu cotanto costa>>.
Allor disse 'l maestro: <<Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr' ello.
Attendi ad altro, ed ei la si rimanga;
ch'io vidi lui a pie del ponticello
mostrarti e minacciar forte col dito,
e udi' 'l nominar Geri del Bello.
Tu eri allor si del tutto impedito
sovra colui che gia tenne Altaforte,
che non guardasti in la, si fu partito>>.
<<O duca mio, la violenta morte
che non li e vendicata ancor>>, diss' io,
<<per alcun che de l'onta sia consorte,
fece lui disdegnoso; ond' el sen gio
sanza parlarmi, si com' io estimo:
e in cio m'ha el fatto a se piu pio>>.
Cosi parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio l'altra valle mostra,
se piu lume vi fosse, tutto ad imo.
Quando noi fummo sor l'ultima chiostra
di Malebolge, si che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra,
lamenti saettaron me diversi,
che di pieta ferrati avean li strali;
ond' io li orecchi con le man copersi.
Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti 'nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n'usciva
qual suol venir de le marcite membre.
Noi discendemmo in su l'ultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
e allor fu la mia vista piu viva
giu ver' lo fondo, la 've la ministra
de l'alto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra.
Non credo ch'a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,
quando fu l'aere si pien di malizia,
che li animali, infino al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo,
si ristorar di seme di formiche;
ch'era a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche.
Qual sovra 'l ventre e qual sovra le spalle
l'un de l'altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.
Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone.
Io vidi due sedere a se poggiati,
com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al pie di schianze macolati;
e non vidi gia mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,
ne a colui che mal volontier vegghia,
come ciascun menava spesso il morso
de l'unghie sopra se per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha piu soccorso;
e si traevan giu l'unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o d'altro pesce che piu larghe l'abbia.
<<O tu che con le dita ti dismaglie>>,
comincio 'l duca mio a l'un di loro,
<<e che fai d'esse talvolta tanaglie,
dinne s'alcun Latino e tra costoro
che son quinc' entro, se l'unghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro>>.
<<Latin siam noi, che tu vedi si guasti
qui ambedue>>, rispuose l'un piangendo;
<<ma tu chi se' che di noi dimandasti? >>.
E 'l duca disse: <<I' son un che discendo
con questo vivo giu di balzo in balzo,
e di mostrar lo 'nferno a lui intendo>>.
Allor si ruppe lo comun rincalzo;
e tremando ciascuno a me si volse
con altri che l'udiron di rimbalzo.
Lo buon maestro a me tutto s'accolse,
dicendo: <<Di a lor cio che tu vuoli>>;
e io incominciai, poscia ch'ei volse:
<<Se la vostra memoria non s'imboli
nel primo mondo da l'umane menti,
ma s'ella viva sotto molti soli,
ditemi chi voi siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi>>.
<<Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena>>,
rispuose l'un, <<mi fe mettere al foco;
ma quel per ch'io mori' qui non mi mena.
Vero e ch'i' dissi lui, parlando a gioco:
"I' mi saprei levar per l'aere a volo";
e quei, ch'avea vaghezza e senno poco,
volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo
perch' io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l'avea per figliuolo.
Ma ne l'ultima bolgia de le diece
me per l'alchimia che nel mondo usai
danno Minos, a cui fallar non lece>>.
E io dissi al poeta: <<Or fu gia mai
gente si vana come la sanese?
Certo non la francesca si d'assai! >>.
Onde l'altro lebbroso, che m'intese,
rispuose al detto mio: <<Tra'mene Stricca
che seppe far le temperate spese,
e Niccolo che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l'orto dove tal seme s'appicca;
e tra'ne la brigata in che disperse
Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda,
e l'Abbagliato suo senno proferse.
Ma perche sappi chi si ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver' me l'occhio,
si che la faccia mia ben ti risponda:
si vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l'alchimia;
e te dee ricordar, se ben t'adocchio,
com' io fui di natura buona scimia>>.
Inferno ? Canto XXX
Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semele contra 'l sangue tebano,
come mostro una e altra fiata,
Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano,
grido: <<Tendiam le reti, si ch'io pigli
la leonessa e ' leoncini al varco>>;
e poi distese i dispietati artigli,
prendendo l'un ch'avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s'annego con l'altro carco.
E quando la fortuna volse in basso
l'altezza de' Troian che tutto ardiva,
si che 'nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latro si come cane;
tanto il dolor le fe la mente torta.
Ma ne di Tebe furie ne troiane
si vider mai in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonche membra umane,
quant' io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che 'l porco quando del porcil si schiude.
L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo l'assanno, si che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.
E l'Aretin che rimase, tremando
mi disse: <<Quel folletto e Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui cosi conciando>>.
<<Oh>>, diss' io lui, <<se l'altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi e, pria che di qui si spicchi>>.
Ed elli a me: <<Quell' e l'anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica.
Questa a peccar con esso cosi venne,
falsificando se in altrui forma,
come l'altro che la sen va, sostenne,
per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in se Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma>>.
E poi che i due rabbiosi fuor passati
sovra cu' io avea l'occhio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.
Io vidi un, fatto a guisa di leuto,
pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia
tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto.
La grave idropesi, che si dispaia
le membra con l'omor che mal converte,
che 'l viso non risponde a la ventraia,
faceva lui tener le labbra aperte
come l'etico fa, che per la sete
l'un verso 'l mento e l'altro in su rinverte.
<<O voi che sanz' alcuna pena siete,
e non so io perche, nel mondo gramo>>,
diss' elli a noi, <<guardate e attendete
a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch'i' volli,
e ora, lasso! , un gocciol d'acqua bramo.
Li ruscelletti che d'i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
che l'imagine lor vie piu m'asciuga
che 'l male ond' io nel volto mi discarno.
La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov' io peccai
a metter piu li miei sospiri in fuga.
Ivi e Romena, la dov' io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch'io il corpo su arso lasciai.
Ma s'io vedessi qui l'anima trista
di Guido o d'Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.
Dentro c'e l'una gia, se l'arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c'ho le membra legate?
S'io fossi pur di tanto ancor leggero
ch'i' potessi in cent' anni andare un'oncia,
io sarei messo gia per lo sentiero,
cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch'ella volge undici miglia,
e men d'un mezzo di traverso non ci ha.
Io son per lor tra si fatta famiglia;
e' m'indussero a batter li fiorini
ch'avevan tre carati di mondiglia>>.
E io a lui: <<Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate 'l verno,
giacendo stretti a' tuoi destri confini? >>.
<<Qui li trovai--e poi volta non dierno-->>,
rispuose, <<quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.
L'una e la falsa ch'accuso Gioseppo;
l'altr' e 'l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo>>.
E l'un di lor, che si reco a noia
forse d'esser nomato si oscuro,
col pugno li percosse l'epa croia.
Quella sono come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,
dicendo a lui: <<Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto>>.
Ond' ei rispuose: <<Quando tu andavi
al fuoco, non l'avei tu cosi presto;
ma si e piu l'avei quando coniavi>>.
E l'idropico: <<Tu di' ver di questo:
ma tu non fosti si ver testimonio
la 've del ver fosti a Troia richesto>>.
<<S'io dissi falso, e tu falsasti il conio>>,
disse Sinon; <<e son qui per un fallo,
e tu per piu ch'alcun altro demonio! >>.
<<Ricorditi, spergiuro, del cavallo>>,
rispuose quel ch'avea infiata l'epa;
<<e sieti reo che tutto il mondo sallo! >>.
<<E te sia rea la sete onde ti crepa>>,
disse 'l Greco, <<la lingua, e l'acqua marcia
che 'l ventre innanzi a li occhi si t'assiepa! >>.
Allora il monetier: <<Cosi si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
che, s'i' ho sete e omor mi rinfarcia,
tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a 'nvitar molte parole>>.
Ad ascoltarli er' io del tutto fisso,
quando 'l maestro mi disse: <<Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso! >>.
Quand' io 'l senti' a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
ch'ancor per la memoria mi si gira.
Qual e colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
si che quel ch'e, come non fosse, agogna,
tal mi fec' io, non possendo parlare,
che disiava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.
<<Maggior difetto men vergogna lava>>,
disse 'l maestro, <<che 'l tuo non e stato;
pero d'ogne trestizia ti disgrava.
E fa ragion ch'io ti sia sempre allato,
se piu avvien che fortuna t'accoglia
dove sien genti in simigliante piato:
che voler cio udire e bassa voglia>>.
Inferno ? Canto XXXI
Una medesma lingua pria mi morse,
si che mi tinse l'una e l'altra guancia,
e poi la medicina mi riporse;
cosi od' io che solea far la lancia
d'Achille e del suo padre esser cagione
prima di trista e poi di buona mancia.
Noi demmo il dosso al misero vallone
su per la ripa che 'l cinge dintorno,
attraversando sanza alcun sermone.
Quiv' era men che notte e men che giorno,
si che 'l viso m'andava innanzi poco;
ma io senti' sonare un alto corno,
tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra se la sua via seguitando,
dirizzo li occhi miei tutti ad un loco.
Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perde la santa gesta,
non sono si terribilmente Orlando.
Poco portai in la volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;
ond' io: <<Maestro, di, che terra e questa? >>.
Ed elli a me: <<Pero che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,
avvien che poi nel maginare abborri.
Tu vedrai ben, se tu la ti congiungi,
quanto 'l senso s'inganna di lontano;
pero alquanto piu te stesso pungi>>.
Poi caramente mi prese per mano
e disse: <<Pria che noi siam piu avanti,
accio che 'l fatto men ti paia strano,
sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
da l'umbilico in giuso tutti quanti>>.
Come quando la nebbia si dissipa,
lo sguardo a poco a poco raffigura
cio che cela 'l vapor che l'aere stipa,
cosi forando l'aura grossa e scura,
piu e piu appressando ver' la sponda,
fuggiemi errore e cresciemi paura;
pero che, come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
cosi la proda che 'l pozzo circonda
torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.
E io scorgeva gia d'alcun la faccia,
le spalle e 'l petto e del ventre gran parte,
e per le coste giu ambo le braccia.
Natura certo, quando lascio l'arte
di si fatti animali, assai fe bene
per torre tali essecutori a Marte.
E s'ella d'elefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente,
piu giusta e piu discreta la ne tene;
che dove l'argomento de la mente
s'aggiugne al mal volere e a la possa,
nessun riparo vi puo far la gente.
La faccia sua mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran l'altre ossa;
si che la ripa, ch'era perizoma
dal mezzo in giu, ne mostrava ben tanto
di sovra, che di giugnere a la chioma
tre Frison s'averien dato mal vanto;
pero ch'i' ne vedea trenta gran palmi
dal loco in giu dov' omo affibbia 'l manto.
<<Raphel mai amecche zabi almi>>,
comincio a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia piu dolci salmi.
E 'l duca mio ver' lui: <<Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand' ira o altra passion ti tocca!
Cercati al collo, e troverai la soga
che 'l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che 'l gran petto ti doga>>.
Poi disse a me: <<Elli stessi s'accusa;
questi e Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s'usa.
Lascianlo stare e non parliamo a voto;
che cosi e a lui ciascun linguaggio
come 'l suo ad altrui, ch'a nullo e noto>>.
Facemmo adunque piu lungo viaggio,
volti a sinistra; e al trar d'un balestro
trovammo l'altro assai piu fero e maggio.
A cigner lui qual che fosse 'l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi l'altro e dietro il braccio destro
d'una catena che 'l tenea avvinto
dal collo in giu, si che 'n su lo scoperto
si ravvolgea infino al giro quinto.
<<Questo superbo volle esser esperto
di sua potenza contra 'l sommo Giove>>,
disse 'l mio duca, <<ond' elli ha cotal merto.
Fialte ha nome, e fece le gran prove
quando i giganti fer paura a' dei;
le braccia ch'el meno, gia mai non move>>.
E io a lui: <<S'esser puote, io vorrei
che de lo smisurato Briareo
esperienza avesser li occhi mei>>.
Ond' ei rispuose: <<Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed e disciolto,
che ne porra nel fondo d'ogne reo.
Quel che tu vuo' veder, piu la e molto
ed e legato e fatto come questo,
salvo che piu feroce par nel volto>>.
Non fu tremoto gia tanto rubesto,
che scotesse una torre cosi forte,
come Fialte a scuotersi fu presto.
Allor temett' io piu che mai la morte,
e non v'era mestier piu che la dotta,
s'io non avessi viste le ritorte.
Noi procedemmo piu avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
sanza la testa, uscia fuor de la grotta.
<<O tu che ne la fortunata valle
che fece Scipion di gloria reda,
quand' Anibal co' suoi diede le spalle,
recasti gia mille leon per preda,
e che, se fossi stato a l'alta guerra
de' tuoi fratelli, ancor par che si creda
ch'avrebber vinto i figli de la terra:
mettine giu, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra.
Non ci fare ire a Tizio ne a Tifo:
questi puo dar di quel che qui si brama;
pero ti china e non torcer lo grifo.
Ancor ti puo nel mondo render fama,
ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta
se 'nnanzi tempo grazia a se nol chiama>>.
Cosi disse 'l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese 'l duca mio,
ond' Ercule senti gia grande stretta.
Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: <<Fatti qua, si ch'io ti prenda>>;
poi fece si ch'un fascio era elli e io.
Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto 'l chinato, quando un nuvol vada
sovr' essa si, ched ella incontro penda:
tal parve Anteo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
ch'i' avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente al fondo che divora
Lucifero con Giuda, ci sposo;
ne, si chinato, li fece dimora,
e come albero in nave si levo.
Inferno ? Canto XXXII
S'io avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
piu pienamente; ma perch' io non l'abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;
che non e impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l'universo,
ne da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch'aiutaro Anfione a chiuder Tebe,
si che dal fatto il dir non sia diverso.
Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare e duro,
mei foste state qui pecore o zebe!
Come noi fummo giu nel pozzo scuro
sotto i pie del gigante assai piu bassi,
e io mirava ancora a l'alto muro,
dicere udi'mi: <<Guarda come passi:
va si, che tu non calchi con le piante
le teste de' fratei miseri lassi>>.
Per ch'io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d'acqua sembiante.
Non fece al corso suo si grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
ne Tanai la sotto 'l freddo cielo,
com' era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse su caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l'orlo fatto cricchi.
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l'acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana,
livide, insin la dove appar vergogna
eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in giu tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.
Quand' io m'ebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a' piedi, e vidi due si stretti,
che 'l pel del capo avieno insieme misto.
<<Ditemi, voi che si strignete i petti>>,
diss' io, <<chi siete? >>. E quei piegaro i colli;
e poi ch'ebber li visi a me eretti,
li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse
forte cosi; ond' ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
E un ch'avea perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giue,
disse: <<Perche cotanto in noi ti specchi?
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.
D'un corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna piu d'esser fitta in gelatina:
non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra
con esso un colpo per la man d'Artu;
non Focaccia; non questi che m'ingombra
col capo si, ch'i' non veggio oltre piu,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco se', ben sai omai chi fu.
E perche non mi metti in piu sermoni,
sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni>>.
Poscia vid' io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verra sempre, de' gelati guazzi.
E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne l'etterno rezzo;
se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi 'l pie nel viso ad una.
Piangendo mi sgrido: <<Perche mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perche mi moleste? >>.
E io: <<Maestro mio, or qui m'aspetta,
si ch'io esca d'un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta>>.
Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
<<Qual se' tu che cosi rampogni altrui? >>.
<<Or tu chi se' che vai per l'Antenora,
percotendo>>, rispuose, <<altrui le gote,
si che, se fossi vivo, troppo fora? >>.
<<Vivo son io, e caro esser ti puote>>,
fu mia risposta, <<se dimandi fama,
ch'io metta il nome tuo tra l'altre note>>.
Ed elli a me: <<Del contrario ho io brama.
Levati quinci e non mi dar piu lagna,
che mal sai lusingar per questa lama! >>.
Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: <<El converra che tu ti nomi,
o che capel qui su non ti rimagna>>.
Ond' elli a me: <<Perche tu mi dischiomi,
ne ti diro ch'io sia, ne mosterrolti,
se mille fiate in sul capo mi tomi>>.
Io avea gia i capelli in mano avvolti,
e tratti glien' avea piu d'una ciocca,
latrando lui con li occhi in giu raccolti,
quando un altro grido: <<Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca? >>.
<<Omai>>, diss' io, <<non vo' che piu favelle,
malvagio traditor; ch'a la tua onta
io portero di te vere novelle>>.
<<Va via>>, rispuose, <<e cio che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch'ebbe or cosi la lingua pronta.
El piange qui l'argento de' Franceschi:
"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera
la dove i peccatori stanno freschi".
Se fossi domandato "Altri chi v'era? ",
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui sego Fiorenza la gorgiera.
Gianni de' Soldanier credo che sia
piu la con Ganellone e Tebaldello,
ch'apri Faenza quando si dormia>>.
Noi eravam partiti gia da ello,
ch'io vidi due ghiacciati in una buca,
si che l'un capo a l'altro era cappello;
e come 'l pan per fame si manduca,
cosi 'l sovran li denti a l'altro pose
la 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tideo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l'altre cose.
<<O tu che mostri per si bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi 'l perche>>, diss' io, <<per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con ch'io parlo non si secca>>.
Inferno ? Canto XXXIII
La bocca sollevo dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.
Poi comincio: <<Tu vuo' ch'io rinovelli
disperato dolor che 'l cor mi preme
gia pur pensando, pria ch'io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se' ne per che modo
venuto se' qua giu; ma fiorentino
mi sembri veramente quand' io t'odo.
Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,
e questi e l'arcivescovo Ruggieri:
or ti diro perche i son tal vicino.
Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non e mestieri;
pero quel che non puoi avere inteso,
cioe come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha 'l titol de la fame,
e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,
m'avea mostrato per lo suo forame
piu lune gia, quand' io feci 'l mal sonno
che del futuro mi squarcio 'l velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ' lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studiose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s'avea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ' figli, e con l'agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli
ch'eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se' crudel, se tu gia non ti duoli
pensando cio che 'l mio cor s'annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Gia eran desti, e l'ora s'appressava
che 'l cibo ne solea essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti' chiavar l'uscio di sotto
a l'orribile torre; ond' io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.
Io non piangea, si dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi si, padre! che hai? ".
Percio non lagrimai ne rispuos' io
tutto quel giorno ne la notte appresso,
infin che l'altro sol nel mondo uscio.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia
di manicar, di subito levorsi
e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia".
Queta'mi allor per non farli piu tristi;
lo di e l'altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perche non t'apristi?
Poscia che fummo al quarto di venuti,
Gaddo mi si gitto disteso a' piedi,
dicendo: "Padre mio, che non m'aiuti? ".
Quivi mori; e come tu mi vedi,
vid' io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto di e 'l sesto; ond' io mi diedi,
gia cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due di li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, piu che 'l dolor, pote 'l digiuno>>.
Quand' ebbe detto cio, con li occhi torti
riprese 'l teschio misero co' denti,
che furo a l'osso, come d'un can, forti.
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese la dove 'l si suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
si ch'elli annieghi in te ogne persona!
Che se 'l conte Ugolino aveva voce
d'aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l'eta novella,
novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata
e li altri due che 'l canto suso appella.
Noi passammo oltre, la 've la gelata
ruvidamente un'altra gente fascia,
non volta in giu, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso li pianger non lascia,
e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l'ambascia;
che le lagrime prime fanno groppo,
e si come visiere di cristallo,
riempion sotto 'l ciglio tutto il coppo.
E avvegna che, si come d'un callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,
gia mi parea sentire alquanto vento;
per ch'io: <<Maestro mio, questo chi move?
non e qua giu ogne vapore spento? >>.
Ond' elli a me: <<Avaccio sarai dove
di cio ti fara l'occhio la risposta,
veggendo la cagion che 'l fiato piove>>.
E un de' tristi de la fredda crosta
grido a noi: <<O anime crudeli
tanto che data v'e l'ultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
si ch'io sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna,
un poco, pria che 'l pianto si raggeli>>.
Per ch'io a lui: <<Se vuo' ch'i' ti sovvegna,
dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna>>.
Rispuose adunque: <<I' son frate Alberigo;
i' son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo>>.
<<Oh>>, diss' io lui, <<or se' tu ancor morto? >>.
Ed elli a me: <<Come 'l mio corpo stea
nel mondo su, nulla scienza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l'anima ci cade
innanzi ch'Atropos mossa le dea.
E perche tu piu volentier mi rade
le 'nvetriate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l'anima trade
come fec' io, il corpo suo l'e tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che 'l tempo suo tutto sia volto.
Ella ruina in si fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l'ombra che di qua dietro mi verna.
Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli e ser Branca Doria, e son piu anni
poscia passati ch'el fu si racchiuso>>.
<<Io credo>>, diss' io lui, <<che tu m'inganni;
che Branca Doria non mori unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni>>.
<<Nel fosso su>>, diss' el, <<de' Malebranche,
la dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche,
che questi lascio il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che 'l tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi>>. E io non gliel' apersi;
e cortesia fu lui esser villano.
Ahi Genovesi, uomini diversi
d'ogne costume e pien d'ogne magagna,
perche non siete voi del mondo spersi?
Che col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito gia si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.
Inferno ? Canto XXXIV
<<Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; pero dinanzi mira>>,
disse 'l maestro mio, <<se tu 'l discerni>>.
