Ferìa maggior
percosse
il re Gradasso;
ma quasi tutte al vento erano sparte:
se coglieva talor, coglieva in loco
ove potea gravare e nuocer poco.
ma quasi tutte al vento erano sparte:
se coglieva talor, coglieva in loco
ove potea gravare e nuocer poco.
Ariosto - Orlando Furioso
73
Di loro in arme pochi erano migliori,
ma di quei pochi ella sarà ben l'una;
ch'a nessun patto rimaner di fuori
quella notte intendea molle e digiuna.
Quei dentro alle finestre e ai corridori
miran la giostra al lume de la luna,
che mal grado de' nugoli lo spande
e fa veder, ben che la pioggia è grande.
74
Come s'allegra un bene acceso amante
ch'ai dolci furti per entrar si trova,
quando al fin senta dopo indugie tante,
che 'l taciturno chiavistel si muova;
così volontarosa Bradamante
di far di sé coi cavallieri prova,
s'allegrò quando udì le porte aprire,
calare il ponte, e fuor li vide uscire.
75
Tosto che fuor del ponte i guerrier vede
uscire insieme o con poco intervallo,
si volge a pigliar campo, e di poi riede
cacciando a tutta briglia il buon cavallo,
e la lancia arrestando, che le diede
il suo cugin, che non si corre in fallo,
che fuor di sella è forza che trabocchi,
se fosse Marte, ogni guerrier che tocchi.
76
Il re di Svezia, che primier si mosse,
fu primier anco a riversciarsi al piano:
con tanta forza l'elmo gli percosse
l'asta che mai non fu abbassata invano.
Poi corse il re di Gotia, e ritrovosse
coi piedi in aria al suo destrier lontano.
Rimase il terzo sottosopra volto,
ne l'acqua e nel pantan mezzo sepolto.
77
Tosto ch'ella ai tre colpi tutti gli ebbe
fatto andar coi piedi alti e i capi bassi,
alla rocca ne va, dove aver debbe
la notte albergo; ma prima che passi,
v'è chi la fa giurar che n'uscirebbe,
sempre ch'a giostrar fuori altri chiamassi.
Il signor de là dentro, che 'l valore
ben n'ha veduto, le fa grande onore.
78
Così le fa la donna che venuta
era con quegli tre quivi la sera,
come io dicea, da l'Isola Perduta,
mandata al re di Francia messaggiera.
Cortesemente a lei che la saluta,
sì come graziosa e affabil era,
si leva incontra, e con faccia serena
piglia per mano, e seco al fuoco mena.
79
La donna, cominciando a disarmarsi,
s'avea lo scudo e dipoi l'elmo tratto;
quando una cuffia d'oro, in che celarsi
soleano i capei lunghi e star di piatto,
uscì con l'elmo; onde caderon sparsi
giù per le spalle, e la scopriro a un tratto
e la feron conoscer per donzella,
non men che fiera in arme, in viso bella.
80
Quale al cader de le cortine suole
parer fra mille lampade la scena,
d'archi e di più d'una superba mole,
d'oro e di statue e di pitture piena;
o come suol fuor de la nube il sole
scoprir la faccia limpida e serena:
così, l'elmo levandosi dal viso,
mostrò la donna aprisse il paradiso.
81
Già son cresciute e fatte lunghe in modo
le belle chiome che tagliolle il frate,
che dietro al capo ne può fare un nodo,
ben che non sian come son prima state.
Che Bradamante sia, tien fermo e sodo
(che ben l'avea veduta altre fiate)
il signor de la rocca; e più che prima
or l'accarezza e mostra farne stima.
82
Siedono al fuoco, e con giocondo e onesto
ragionamento dan cibo all'orecchia,
mentre, per ricreare ancora il resto
del corpo, altra vivanda s'apparecchia.
La donna all'oste domandò se questo
modo d'albergo è nuova usanza o vecchia,
e quando ebbe principio, e chi la pose;
e 'l cavalliero a lei così rispose:
83
— Nel tempo che regnava Fieramonte,
Clodione, il figliuolo, ebbe una amica
leggiadra e bella e di maniere conte
quant'altra fosse a quella etade antica;
la quale amava tanto, che la fronte
non rivolgea da lei, più che si dica
che facesse da Ione il suo pastore,
perch'avea ugual la gelosia all'amore.
84
Qui la tenea; che 'l luogo avuto in dono
avea dal padre, e raro egli n'uscia;
e con lui dieci cavallier ci sono,
e dei miglior di Francia tuttavia.
Qui stando, venne a capitarci il buono
Tristano, ed una donna in compagnia,
liberata da lui poch'ore inante,
che traea presa a forza un fier gigante.
85
Tristano ci arrivò che 'l sol già volto
avea le spalle ai liti di Siviglia;
e domandò qui dentro esser raccolto,
perché non c'è altra stanza a dieci miglia.
Ma Clodion, che molto amava e molto
era geloso, in somma si consiglia
che forestier, sia chi si voglia, mentre
ci stia la bella donna, qui non entre.
86
Poi che con lunghe ed iterate preci
non poté aver qui albergo il cavalliero:
— Or quel che far con prieghi io non ti feci,
che 'l facci (disse) tuo mal grado, spero, —
E sfidò Clodion con tutti i dieci
che tenea appresso, e con un grido altiero
se gli offerse con lancia e spada in mano
provar che discortese era e villano;
87
con patto, che se fa che con lo stuolo
suo cada in terra, ed ei stia in sella forte,
ne la rocca alloggiar vuole egli solo,
e vuol gli altri serrar fuor de le porte.
Per non patir quest'onta, va il figliuolo
del re di Francia a rischio de la morte;
ch'aspramente percosso cade in terra,
e cadon gli altri, e Tristan fuor li serra.
88
Entrato ne la rocca, trova quella
la qual v'ho detta a Clodion sì cara,
e ch'avea, a par d'ogn'altra, fatto bella
Natura, a dar bellezze così avara.
Con lei ragiona: intanto arde e martella
di fuor l'amante aspra passione amara;
il qual non differisce a mandar prieghi
al cavallier, che dar non gli la nieghi.
89
Tristano, ancor che lei molto non prezze,
né prezzar, fuor ch'Isotta, altra potrebbe
(ch'altra né ch'ami vuol né ch'accarezze
la pozion che già incantata bebbe),
pur, perché vendicarsi de l'asprezze
che Clodion gli ha usate si vorebbe:
— Di far gran torto mi parria (gli disse)
che tal bellezza del suo albergo uscisse.
90
E quando a Clodion dormire incresca
solo alla frasca, e compagnia domandi,
una giovane ho meco bella e fresca,
non però di bellezze così grandi.
Questa sarò contento che fuor esca,
e ch'ubbidisca a tutti i suoi comandi;
ma la più bella mi par dritto e giusto
che stia con quel di noi ch'è più robusto. —
91
Escluso Clodione e malcontento,
andò sbuffando tutta notte in volta,
come s'a quei che ne l'alloggiamento
dormiano ad agio, fêsse egli l'ascolta;
e molto più che del freddo e del vento,
si dolea de la donna che gli è tolta.
La mattina Tristano a cui ne 'ncrebbe,
gli la rendé, donde il dolor fin ebbe:
92
perché gli disse, e lo fe' chiaro e certo,
che qual trovolla, tal gli la rendea;
e ben che degno era d'ogni onta in merto
de la discortesia ch'usata avea,
pur contentar d'averlo allo scoperto
fatto star tutta notte si volea:
né l'escusa accettò, che fosse Amore
stato cagion di così grave errore;
93
ch'Amor de' far gentile un cor villano,
e non far d'un gentil contrario effetto.
Partito che si fu di qui Tristano,
Clodion non ste' molto a mutar tetto;
ma prima consegnò la rocca in mano
a un cavallier, che molto gli era accetto,
con patto ch'egli e chi da lui venisse,
quest'uso in albergar sempre seguisse:
94
che 'l cavallier ch'abbia maggior possanza,
e la donna beltà, sempre ci alloggi;
e chi vinto riman, voti la stanza,
dorma sul prato, o altrove scenda e poggi.
E finalmente ci fe' por l'usanza
che vedete durar fin al dì d'oggi. —
Or, mentre il cavallier questo dicea,
lo scalco por la mensa fatto avea.
95
Fatto l'avea ne la gran sala porre,
di che non era al mondo la più bella;
indi con torchi accesi venne a torre
le belle donne, e le condusse in quella.
Bradamante, all'entrar, con gli occhi scorre,
e similmente fa l'altra donzella;
e tutte piene le superbe mura
veggon di nobilissima pittura.
96
Di sì belle figure è adorno il loco,
che per mirarle oblian la cena quasi,
ancor che ai corpi non bisogni poco,
pel travaglio del dì lassi rimasi,
e lo scalco si doglia e doglia il coco,
che i cibi lascin raffreddar nei vasi.
Pur fu chi disse: — Meglio fia che voi
pasciate prima il ventre, e gli occhi poi. —
97
S'erano assisi, e porre alle vivande
voleano man, quando il signor s'avide
che l'alloggiar due donne è un error grande:
l'una ha da star, l'altra convien che snide.
Stia la più bella, e la men fuor si mande,
dove la pioggia bagna e 'l vento stride.
Perché non vi son giunte amendue a un'ora,
l'una ha a partire, e l'altra a far dimora.
98
Chiama duo vecchi, e chiama alcune sue
donne di casa, a tal giudizio buone;
e le donzelle mira, e di lor due
chi la più bella sia, fa paragone.
Finalmente parer di tutti fue
ch'era più bella la figlia d'Amone;
e non men di beltà l'altra vincea,
che di valore i guerrier vinti avea.
99
Alla donna d'Islanda, che non sanza
molta sospizion stava di questo,
il signor disse: — Che serviàn l'usanza,
non v'ha, donna, a parer se non onesto.
A voi convien procacciar d'altra stanza,
quando a noi tutti è chiaro e manifesto
che costei di bellezze e di sembianti,
ancor ch'inculta sia, vi passa inanti. —
100
Come si vede in un momento oscura
nube salir d'umida valle al cielo,
che la faccia che prima era sì pura
cuopre del sol con tenebroso velo;
così la donna alla sentenza dura
che fuor la caccia ove è la pioggia e 'l gielo,
cangiar si vide, e non parer più quella
che fu pur dianzi sì gioconda e bella.
101
S'impallidisce e tutta cangia in viso,
che tal sentenza udir poco le aggrada.
Ma Bradamante con un saggio aviso,
che per pietà non vuol che se ne vada,
rispose: — A me non par che ben deciso,
né che ben giusto alcun giudicio cada,
ove prima non s'oda quanto nieghi
la parte o affermi, e sue ragioni alleghi.
102
Io ch'a difender questa causa toglio,
dico: o più bella o men ch'io sia di lei,
non venni come donna qui, né voglio
che sian di donna ora i progressi miei.
Ma chi dirà, se tutta non mi spoglio,
s'io sono o s'io non son quel ch'è costei?
E quel che non si sa non si de' dire,
e tanto men, quando altri n'ha a patire.
103
Ben son degli altri ancor, c'hanno le chiome
lunghe, com'io, né donne son per questo.
Se come cavallier la stanza, o come
donna acquistata m'abbia, è manifesto:
perché dunque volete darmi nome
di donna, se di maschio è ogni mio gesto?
La legge vostra vuol che ne sian spinte
donne da donne, e non da guerrier vinte.
104
Poniamo ancor, che, come a voi pur pare,
io donna sia (che non però il concedo),
ma che la mia beltà non fosse pare
a quella di costei; non però credo
che mi vorreste la mercé levare
di mia virtù, se ben di viso io cedo.
Perder per men beltà giusto non parmi
quel c'ho acquistato per virtù con l'armi.
105
E quando ancor fosse l'usanza tale,
che chi perde in beltà ne dovesse ire,
io ci vorrei restare, o bene o male
che la mia ostinazion dovesse uscire.
Per questo, che contesa diseguale
è tra me e questa donna, vo' inferire
che, contendendo di beltà, può assai
perdere, e meco guadagnar non mai.
106
E se guadagni e perdite non sono
in tutto pari, ingiusto è ogni partito:
sì ch'a lei per ragion, sì ancor per dono
spezial, non sia l'albergo proibito.
E s'alcuno di dir che non sia buono
e dritto il mio giudizio sarà ardito,
sarò per sostenergli a suo piacere,
che 'l mio sia vero, e falso il suo parere. —
107
La figliuola d'Amon, mossa a pietade
che questa gentil donna debba a torto
esser cacciata ove la pioggia cade,
ove né tetto, ove né pure è un sporto,
al signor de l'albergo persuade
con ragion molte e con parlare accorto,
ma molto più con quel ch'al fin concluse,
che resti cheto e accetti le sue scuse.
108
Qual sotto il più cocente ardore estivo,
quando di ber più desiosa è l'erba,
il fior ch'era vicino a restar privo
di tutto quell'umor ch'in vita il serba,
sente l'amata pioggia e si fa vivo;
così, poi che difesa sì superba
si vide apparecchiar la messaggera,
lieta e bella tornò come prim'era.
109
La cena, stata lor buon pezzo avante,
né ancor pur tocca, al fin godersi in festa,
senza che più di cavalliero errante
nuova venuta fosse lor molesta.
La goder gli altri, ma non Bradamante,
pure all'usanza addolorata e mesta;
che quel timor, che quel sospetto ingiusto
che sempre avea nel cor, le tollea il gusto.
110
Finita ch'ella fu (che saria forse
stata più lunga, se 'l desir non era
di cibar gli occhi), Bradamante sorse,
e sorse appresso a lei la messaggera.
Accennò quel signore ad un che corse
e prestamente allumò molta cera,
che splender fe' la sala in ogni canto.
Quel che seguì dirò ne l'altro canto.
CANTO TRENTATREESIMO
1
Timagora, Parrasio, Polignoto,
Protogene, Timante, Apollodoro,
Apelle, più di tutti questi noto,
e Zeusi, e gli altri ch'a quei tempi foro;
di quai la fama (mal grado di Cloto,
che spinse i corpi e dipoi l'opre loro)
sempre starà, fin che si legga e scriva,
mercé degli scrittori, al mondo viva:
2
e quei che furo a' nostri dì, o sono ora,
Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino,
duo Dossi, e quel ch'a par sculpe e colora,
Michel, più che mortale, angel divino;
Bastiano, Rafael, Tizian, ch'onora
non men Cador, che quei Venezia e Urbino;
e gli altri di cui tal l'opra si vede,
qual de la prisca età si legge e crede:
3
questi che noi veggiàn pittori, e quelli
che già mille e mill'anni in pregio furo,
le cose che son state, coi pennelli
fatt'hanno, altri su l'asse, altri sul muro.
Non però udiste antiqui, né novelli
vedeste mai dipingere il futuro:
e pur si sono istorie anco trovate,
che son dipinte inanzi che sian state.
4
Ma di saperlo far non si dia vanto
pittore antico né pittor moderno;
e ceda pur quest'arte al solo incanto,
del qual trieman gli spirti de lo 'nferno.
La sala ch'io dicea ne l'altro canto,
Merlin col libro, o fosse al lago Averno,
o fosse sacro alle Nursine grotte,
fece far dai demonii in una notte.
5
Quest'arte, con che i nostri antiqui fenno
mirande prove, a nostra etade è estinta.
Ma ritornando ove aspettar mi denno
quei che la sala hanno a veder dipinta,
dico ch'a uno scudier fu fatto cenno,
ch'accese i torchi; onde la notte, vinta
dal gran splendor, si dileguò d'intorno;
né più vi si vedria, se fosse giorno.
6
Quel signor disse lor: — Vo' che sappiate,
che de le guerre che son qui ritratte,
fin al dì d'oggi poche ne son state;
e son prima dipinte, che sian fatte.
Chi l'ha dipinte, ancor l'ha indovinate.
Quando vittoria avran, quando disfatte
in Italia saran le genti nostre,
potrete qui veder come si mostre.
7
Le guerre ch'i Franceschi da far hanno
di là da l'Alpe, o bene o mal successe,
dal tempo suo fin al millesim'anno,
Merlin profeta in questa sala messe;
il qual mandato fu dal re britanno
al franco re ch'a Marcomir successe:
e perché lo mandassi, e perché fatto
da Merlin fu il lavor, vi dirò a un tratto.
8
Re Fieramonte, che passò primiero
con l'esercito franco in Gallia il Reno,
poi che quella occupò, facea pensiero
di porre alla superba Italia il freno.
Faceal perciò, che più 'l romano Impero
vedea di giorno in giorno venir meno:
e per tal causa col britanno Arturo
volse far lega; ch'ambi a un tempo furo.
9
Artur, ch'impresa ancor senza consiglio
del profeta Merlin non fece mai,
di Merlin, dico, del demonio figlio,
che del futuro antivedeva assai,
per lui seppe, e saper fece il periglio
a Fieramonte, a che di molti guai
porrà sua gente, s'entra ne la terra
ch'Apenin parte, e il mare e l'Alpe serra.
10
Merlin gli fe' veder che quasi tutti
gli altri che poi di Francia scettro avranno,
o di ferro gli eserciti distrutti,
o di fame o di peste si vedranno;
e che brevi allegrezze e lunghi lutti,
poco guadagno ed infinito danno
riporteran d'Italia; che non lice
che 'l Giglio in quel terreno abbia radice.
11
Re Fieramonte gli prestò tal fede,
ch'altrove disegnò volger l'armata;
e Merlin, che così la cosa vede,
ch'abbia a venir, come se già sia stata,
avere a' prieghi di quel re si crede
la sala per incanto istoriata,
ove dei Franchi ogni futuro gesto,
come già stato sia, fa manifesto.
12
Acciò chi poi succederà, comprenda
che, come ha d'acquistar vittoria e onore,
qualor d'Italia la difesa prenda
incontra ogn'altro barbaro furore;
così, s'avvien ch'a danneggiarla scenda,
per porle il giogo e farsene signore,
comprenda, dico, e rendasi ben certo
ch'oltre a quei monti avrà il sepulcro aperto. —
13
Così disse; e menò le donne dove
incomincian l'istorie: e Singiberto
fa lor veder, che per tesor si muove,
che gli ha Maurizio imperatore offerto.
— Ecco che scende dal monte di Giove
nel pian da l'Ambra e dal Ticino aperto.
Vedete Eutar, che non pur l'ha respinto,
ma volto in fuga e fracassato e vinto.
14
Vedete Clodoveo, ch'a più di cento
mila persone fa passare il monte:
vedete il duca là di Benevento,
che con numer dispar vien loro a fronte.
Ecco finge lasciar l'alloggiamento,
e pon gli aguati: ecco, con morti ed onte,
al vin lombardo la gente francesca
corre, e riman come la lasca all'esca.
15
Ecco in Italia Childiberto quanta
gente di Francia e capitani invia;
né più che Clodoveo, si gloria e vanta
ch'abbia spogliata o vinta Lombardia;
che la spada del ciel scende con tanta
strage de' suoi, che n'è piena ogni via,
morti di caldo e di profluvio d'alvo;
sì che di dieci un non ne torna salvo. —
16
Mostra Pipino, e mostra Carlo appresso,
come in Italia un dopo l'altro scenda,
e v'abbia questo e quel lieto successo,
che venuto non v'è perché l'offenda;
ma l'uno, acciò il pastor Stefano oppresso,
l'altro Adriano, e poi Leon difenda:
l'un doma Aistulfo, e l'altro vince e prende
il successore, e al papa il suo onor rende.
17
Lor mostra appresso un giovene Pipino,
che con sua gente par che tutto cuopra
da le Fornaci al lito pelestino;
e faccia con gran spesa e con lung'opra
il ponte a Malamocco, e che vicino
giunga a Rialto, e vi combatta sopra.
Poi fuggir sembra, e che i suoi lasci sotto
l'acque; che 'l ponte il vento e 'l mar gli han rotto.
18
— Ecco Luigi Borgognon, che scende
là dove par che resti vinto e preso,
e che giurar gli faccia chi lo prende,
che più da l'arme sue non sarà offeso.
Ecco che 'l giuramento vilipende;
ecco di nuovo cade al laccio teso;
ecco vi lascia gli occhi, e come talpe
lo riportano i suoi di qua da l'Alpe.
19
Vedete un Ugo d'Arli far gran fatti,
e che d'Italia caccia i Berengari;
e due o tre volte gli ha rotti e disfatti,
or dagli Unni rimessi, or dai Bavari.
Poi da più forza è stretto di far patti
con l'inimico, e non sta in vita guari;
né guari dopo lui vi sta l'erede,
e 'l regno intero a Berengario cede.
20
Vedete un altro Carlo, che a' conforti
del buon Pastor fuoco in Italia ha messo;
e in due fiere battaglie ha duo re morti,
Manfredi prima, e Coradino appresso.
Poi la sua gente, che con mille torti
sembra tenere il nuovo regno oppresso,
di qua e di là per le città divisa,
vedete a un suon di vespro tutta uccisa. —
21
Lor mostra poi (ma vi parea intervallo
di molti e molti, non ch'anni, ma lustri)
scender dai monti un capitano Gallo,
e romper guerra ai gran Visconti illustri;
e con gente francesca a piè e a cavallo
par ch'Alessandria intorno cinga e lustri;
e che 'l duca il presidio dentro posto,
e fuor abbia l'aguato un po' discosto;
22
e la gente di Francia malaccorta,
tratta con arte ove la rete è tesa,
col conte Armeniaco, la cui scorta
l'avea condotta all'infelice impresa,
giaccia per tutta la campagna morta,
parte sia tratta in Alessandria presa:
e di sangue non men che d'acqua grosso,
il Tanaro si vede il Po far rosso.
23
Un, detto de la Marca, e tre Angioini
mostra l'un dopo l'altro, e dice: — Questi
a Bruci, a Dauni, a Marsi, a Salentini
vedete come son spesso molesti.
Ma né de' Franchi val né de' Latini
aiuto sì, ch'alcun di lor vi resti:
ecco li caccia fuor del regno, quante
volte vi vanno, Alfonso e poi Ferrante.
24
Vedete Carlo ottavo, che discende
da l'Alpe, e seco ha il fior di tutta Francia,
che passa il Liri e tutto 'l regno prende
senza mai stringer spada o abbassar lancia,
fuor che lo scoglio ch'a Tifeo si stende
su le braccia, sul petto e su la pancia;
che del buon sangue d'Avalo al contrasto
la virtù trova d'Inico del Vasto. —
25
Il signor de la rocca, che venìa
quest'istoria additando a Bradamante,
mostrato che l'ebbe Ischia, disse: — Pria
ch'a vedere altro più vi meni avante,
io vi dirò quel ch'a me dir solia
il bisavolo mio, quand'io era infante,
e quel che similmente mi dicea
che da suo padre udito anch'esso avea;
26
e 'l padre suo da un altro, o padre o fosse
avolo, e l'un da l'altro sin a quello
ch'a udirlo da quel proprio ritrovosse,
che l'imagini fe' senza pennello,
che qui vedete bianche, azzurre e rosse:
udì che, quando al re mostrò il castello
ch'or mostro a voi su quest'altiero scoglio,
gli disse quel ch'a voi riferir voglio.
27
Udì che gli dicea ch'in in questo loco
di quel buon cavallier che lo difende
con tanto ardir, che par disprezzi il fuoco
che d'ogn'intorno e sino al Faro incende,
nascer debbe in quei tempi o dopo poco
(e ben gli disse l'anno e le calende)
un cavalliero, a cui sarà secondo
ogn'altro che sin qui sia stato al mondo.
28
Non fu Nireo sì bel, non sì eccellente
di forze Achille, e non sì ardito Ulisse,
non sì veloce Lada, non prudente
Nestor, che tanto seppe e tanto visse,
non tanto liberal, tanto clemente,
l'antica fama Cesare descrisse;
che verso l'uom ch'in Ischia nascer deve,
non abbia ogni lor vanto a restar lieve.
29
E se si gloriò l'antiqua Creta,
quando il nipote in lei nacque di Celo,
se Tebe fece Ercole e Bacco lieta,
se si vantò dei duo gemelli Delo;
né questa isola avrà da starsi cheta,
che non s'esalti e non si levi in cielo,
quando nascerà in lei quel gran marchese
ch'avrà sì d'ogni grazia il ciel cortese.
30
Merlin gli disse, e replicògli spesso,
ch'era serbato a nascere all'etade
che più il romano Imperio saria oppresso,
acciò per lui tornasse in libertade.
Ma perché alcuno de' suoi gesti appresso
vi mostrerò, predirli non accade. —
Così disse; e tornò all'istoria dove
di Carlo si vedean l'inclite prove.
31
— Ecco (dicea) si pente Ludovico
d'aver fatto in Italia venir Carlo;
che sol per travagliar l'emulo antico
chiamato ve l'avea, non per cacciarlo;
e se gli scuopre al ritornar nimico
con Veneziani in lega, e vuol pigliarlo.
Ecco la lancia il re animoso abbassa,
apre la strada e, lor mal grado, passa.
32
Ma la sua gente ch'a difesa resta
del nuovo regno, ha ben contraria sorte;
che Ferrante, con l'opra che gli presta
il signor mantuan, torna sì forte,
ch'in pochi mesi non ne lascia testa,
o in terra o in mar, che non sia messa a morte:
poi per un uom che gli è con fraude estinto,
non par che senta il gaudio d'aver vinto. —
33
Così dicendo, mostragli il marchese
Alfonso di Pescara, e dice: — Dopo
che costui comparito in mille imprese
sarà più risplendente che piropo,
ecco qui ne l'insidie che gli ha tese
con un trattato doppio il rio Etiopo,
come scannato di saetta cade
il miglior cavallier di quella etade.
34
Poi mostra ove il duodecimo Luigi
passa con scorta italiana i monti,
e svelto il Moro, pon la Fiordaligi
nel fecondo terren già de' Visconti.
Indi manda sua gente pei vestigi
di Carlo, a far sul Garigliano i ponti;
la quale appresso andar rotta e dispersa
si vede, e morta e nel fiume summersa.
35
Vedete in Puglia non minor macello
de l'esercito franco in fuga volto;
e Consalvo Ferrante ispano è quello
che due volte alla trappola l'ha colto.
E come qui turbato, così bello
mostra Fortuna al re Luigi il volto
nel ricco pian che, fin dove Adria stride,
tra l'Apenino e l'Alpe il Po divide. —
36
Così dicendo, se stesso riprende
che quel ch'avea a dir prima abbia lasciato;
e torna a dietro, e mostra uno che vende
il castel che 'l signor suo gli avea dato;
mostra il perfido Svizzero che prende
colui ch'a sua difesa l'ha assoldato:
le quai due cose, senza abbassar lancia,
han dato la vittoria al re di Francia.
37
Poi mostra Cesar Borgia col favore
di questo re farsi in Italia grande;
ch'ogni baron di Roma, ogni signore
suggietto a lei, par ch'in esilio mande.
Poi mostra il re che di Bologna fuore
leva la Sega, e vi fa entrar le Giande;
poi come volge i Genovesi in fuga
fatti ribelli, e la città suggiuga.
38
— Vedete (dice poi) di gente morta
coperta in Giaradada la campagna.
Par ch'apra ogni cittade al re la porta,
e che Venezia a pena vi rimagna.
Vedete come al papa non comporta
che, passati i confini di Romagna,
Modana al duca di Ferrara toglia,
né qui si fermi, e 'l resto tor gli voglia:
39
e fa, all'incontro, a lui Bologna torre;
che v'entra la Bentivola famiglia.
Vedete il campo de' Francesi porre
a sacco Brescia, poi che la ripiglia;
e quasi a un tempo Felsina soccorre,
e 'l campo ecclesiastico sgombiglia:
e l'uno e l'altro poi nei luoghi bassi
par si riduca del lito de Chiassi.
40
Di qua la Francia, e di là il campo ingrossa
la gente ispana; e la battaglia è grande.
Cader si vede e far la terra rossa
la gente d'arme in amendua le bande.
Piena di sangue uman pare ogni fossa:
Marte sta in dubbio u' la vittoria mande.
Per virtù d'un Alfonso al fin si vede
che resta il Franco, e che l'Ispano cede,
41
e che Ravenna saccheggiata resta.
Si morde il papa per dolor le labbia,
e fa da' monti, a guisa di tempesta,
scendere in fretta una tedesca rabbia,
ch'ogni Francese, senza mai far testa,
di qua da l'Alpe par che cacciat'abbia,
e che posto un rampollo abbia del Moro
nel giardino onde svelse i Gigli d'oro.
42
Ecco torna il Francese: eccolo rotto
da l'infedele Elvezio ch'in suo aiuto
con troppo rischio ha il giovine condotto,
del quale il padre avea preso e venduto.
Vedete poi l'esercito, che sotto
la ruota di Fortuna era caduto,
creato il novo re, che si prepara
de l'onta vendicar ch'ebbe a Novara:
43
e con migliore auspizio ecco ritorna.
Vedete il re Francesco inanzi a tutti,
che così rompe a' Svizzeri le corna,
che poco resta a non gli aver distrutti:
sì che 'l titolo mai più non gli adorna,
ch'usurpato s'avran quei villan brutti,
che domator de' principi, e difesa
si nomeran de la cristiana Chiesa.
44
Ecco, mal grado de la lega, prende
Milano, e accorda il giovene Sforzesco.
Ecco Borbon che la città difende
pel re di Francia dal furor tedesco.
Eccovi poi, che mentre altrove attende
ad altre magne imprese il re Francesco,
né sa quanta superbia e crudeltade
usino i suoi, gli è tolta la cittade.
45
Ecco un altro Francesco ch'assimiglia
di virtù all'avo, e non di nome solo;
che, fatto uscirne i Galli, si ripiglia
col favor de la Chiesa il patrio suolo.
Francia anco torna, ma ritien la briglia,
né scorre Italia, come suole, a volo;
che 'l bon duca di Mantua sul Ticino
le chiude il passo, e le taglia il camino.
46
Federico, ch'ancor non ha la guancia
de' primi fiori sparsa, si fa degno
di gloria eterna, ch'abbia con la lancia,
ma più con diligenza e con ingegno,
Pavia difesa dal furor di Francia,
e del Leon del mar rotto il disegno.
Vedete duo marchesi, ambi terrore
di nostre genti, ambi d'Italia onore;
47
ambi d'un sangue, ambi in un nido nati.
Di quel marchese Alfonso il primo è figlio,
il qual tratto dal Negro negli aguati,
vedeste il terren far di sé vermiglio.
Vedete quante volte son cacciati
d'Italia i Franchi pel costui consiglio.
L'altro di sì benigno e lieto aspetto
il Vasto signoreggia, e Alfonso è detto.
48
Questo è il buon cavallier, di cui dicea,
quando l'isola d'Ischia vi mostrai,
che già profetizzando detto avea
Merlino a Fieramonte cose assai:
che diferire a nascere dovea
nel tempo che d'aiuto più che mai
l'afflitta Italia, la Chiesa e l'Impero
contra ai barbari insulti avria mistiero.
49
Costui dietro al cugin suo di Pescara
con l'auspicio di Prosper Colonnese,
vedete come la Bicocca cara
fa parere all'Elvezio e più al Francese.
Ecco di nuovo Francia si prepara
di ristaurar le mal successe imprese:
scende il re con un campo in Lombardia,
un altro per pigliar Napoli invia.
50
Ma quella che di noi fa come il vento
d'arida polve, che l'aggira in volta,
la leva fin al cielo, e in un momento
a terra la ricaccia, onde l'ha tolta;
fa ch'intorno a Pavia crede di cento
mila persone aver fatto raccolta
il re, che mira a quel che di man gli esce,
non se la gente sua si scema o cresce.
51
Così per colpa de' ministri avari,
e per bontà del re che se ne fida,
sotto l'insegne si raccoglion rari,
quando la notte il campo all'arme grida,
che si vede assalir dentro ai ripari
dal sagace Spagnuol, che con la guida
di duo del sangue d'Avalo ardiria
farsi nel cielo e ne lo 'nferno via.
52
Vedete il meglio de la nobiltade
di tutta Francia alla campagna estinto.
Vedete quante lance e quante spade
han d'ogn'intorno il re animoso cinto;
vedete che 'l destrier sotto gli cade:
né per questo si rende o chiama vinto,
ben ch'a lui solo attenda, a lui sol corra
lo stuol nimico, e non è chi 'l soccorra.
53
Il re gagliardo si difende a piede,
e tutto de l'ostil sangue si bagna:
ma virtù al fine a troppa forza cede.
Ecco il re preso, ed eccolo in Ispagna:
ed a quel di Pescara dar si vede,
ed a chi mai da lui non si scompagna,
a quel del Vasto, le prime corone
del campo rotto e del gran re prigione.
54
Rotto a Pavia l'un campo, l'altro ch'era,
per dar travaglio a Napoli, in camino,
restar si vede, come, se la cera
gli manca o l'oglio, resta il lumicino.
Ecco che 'l re ne la prigione ibera
lascia i figliuoli, e torna al suo domìno:
ecco fa a un tempo egli in Italia guerra;
ecco altri la fa a lui ne la sua terra.
55
Vedete gli omicidi e le rapine
in ogni parte far Roma dolente;
e con incendi e stupri le divine
e le profane cose ire ugualmente.
Il campo de la lega le ruine
mira d'appresso, e 'l pianto e 'l grido sente;
e dove ir dovria inanzi, torna indietro,
e prender lascia il successor di Pietro.
56
Manda Lotrecco il re con nuove squadre,
non più per fare in Lombardia l'impresa,
ma per levar de le mani empie e ladre
il capo e l'altre membra de la Chiesa;
che tarda sì, che trova al Santo Padre
non esser più la libertà contesa.
Assedia la cittade ove sepolta
è la sirena, e tutto il regno volta.
57
Ecco l'armata imperial si scioglie
per dar soccorso alla città assediata;
ed ecco il Doria che la via le toglie,
e l'ha nel mar sommersa, arsa e spezzata.
Ecco Fortuna come cangia voglie,
sin qui a' Francesi sì propizia stata;
che di febbre gli uccide, e non di lancia,
sì che di mille un non ne torna in Francia. —
58
La sala queste ed altre istorie molte,
che tutte saria lungo riferire,
in vari e bei colori avea raccolte;
ch'era ben tal che le potea capire.
Tornano a rivederle due e tre volte,
né par che se ne sappiano partire;
e rilegon più volte quel ch'in oro
si vedea scritto sotto il bel lavoro.
59
Le belle donne e gli altri quivi stati
mirando e ragionando insieme un pezzo,
fur dal signore a riposar menati,
ch'onorar gli osti suoi molt'era avezzo.
Già sendo tutti gli altri addormentati,
Bradamante a corcar si va da sezzo,
e si volta or su questo or su quel fianco,
né può dormir sul destro né sul manco.
60
Pur chiude alquanto appresso all'alba i lumi,
e di veder le pare il suo Ruggiero,
il qual le dica: — Perché ti consumi,
dando credenza a quel che non è vero?
Tu vedrai prima all'erta andare i fiumi,
ch'ad altri mai, ch'a te, volga il pensiero.
S'io non amassi te, né il cor potrei
né le pupille amar degli occhi miei. —
61
E par che le suggiunga: — Io son venuto
per battezzarmi e far quanto ho promesso;
e s'io son stato tardi, m'ha tenuto
altra ferita, che d'amore, oppresso. —
Fuggesi in questo il sonno, né veduto
è più Ruggier che se ne va con esso.
Rinuova allora i pianti la donzella,
e ne la mente sua così favella:
62
— Fu quel che piacque, un falso sogno; e questo
che mi tormenta, ahi lassa! è un veggiar vero.
Il ben fu sogno a dileguarsi presto,
ma non è sogno il martire aspro e fiero.
Perch'or non ode e vede il senso desto
quel ch'udire e veder parve al pensiero?
A che condizione, occhi miei, sete,
che chiusi il ben, e aperti il mal vedete?
63
Il dolce sonno mi promise pace,
ma l'amaro veggiar mi torna in guerra:
il dolce sonno è ben stato fallace,
ma l'amaro veggiare, ohimè! non erra.
Se 'l vero annoia, e il falso sì mi piace,
non oda o vegga mai più vero in terra:
se 'l dormir mi dà gaudio, e il veggiar guai,
possa io dormir senza destarmi mai.
64
O felice animal ch'un sonno forte
sei mesi tien senza mai gli occhi aprire!
Che s'assimigli tal sonno alla morte,
tal veggiare alla vita, io non vo' dire;
ch'a tutt'altre contraria la mia sorte
sente morte a veggiar, vita a dormire:
ma s'a tal sonno morte s'assimiglia,
deh, Morte, or ora chiudimi le ciglia! —
65
De l'orizzonte il sol fatte avea rosse
l'estreme parti, e dileguato intorno
s'eran le nubi, e non parea che fosse
simile all'altro il cominciato giorno;
quando svegliata Bradamante armosse
per fare a tempo al suo camin ritorno,
rendute avendo grazie a quel signore
del buono albergo e de l'avuto onore.
66
E trovò che la donna messaggera,
con damigelle sue, con suoi scudieri
uscita de la rocca, venut'era
là dove l'attendean quei tre guerrieri;
quei che con l'asta d'oro essa la sera
fatto avea riversar giù dei destrieri,
e che patito avean con gran disagio
la notte l'acqua e il vento e il ciel malvagio.
67
Arroge a tanto mal, ch'a corpo voto
ed essi e i lor cavalli eran rimasi,
battendo i denti e calpestando il loto:
ma quasi lor più incresce, e senza quasi
incresce e preme più, che farà noto
la messaggera, appresso agli altri casi,
alla sua donna, che la prima lancia
gli abbia abbattuti, c'han trovata in Francia.
68
E presti o di morire, o di vendetta
subito far del ricevuto oltraggio,
acciò la messaggera, che fu detta
Ullania, che nomata più non aggio,
la mala opinion ch'avea concetta
forse di lor, si tolga del coraggio,
la figliuola d'Amon sfidano a giostra,
tosto che fuor del ponte ella si mostra;
69
non pensando però che sia donzella,
che nessun gesto di donzella avea.
Bradamante ricusa, come quella
ch'in fretta gìa, né soggiornar volea.
Pur tanto e tanto fur molesti, ch'ella,
che negar senza biasmo non potea,
abbassò l'asta, ed a tre colpi in terra
li mandò tutti; e qui finì la guerra:
70
che senza più voltarsi mostrò loro
lontan le spalle, e dileguossi tosto.
Quei che, per guadagnar lo scudo d'oro,
di paese venian tanto discosto,
poi che senza parlar ritti si foro,
che ben l'avean con ogni ardir deposto,
stupefatti parean di maraviglia,
né verso Ullania ardian d'alzar le ciglia;
71
che con lei molte volte per camino
dato s'avean troppo orgogliosi vanti:
che non è cavallier né paladino
ch'al minor di lor tre durasse avanti.
La donna, perché ancor più a capo chino
vadano, e più non sian così arroganti,
fa lor saper che fu femina quella,
non paladin, che li levò di sella.
72
— Or che dovete (diceva ella), quando
così v'abbia una femina abbattuti,
pensar che sia Rinaldo o che sia Orlando,
non senza causa in tant'onore avuti?
S'un d'essi avrà lo scudo, io vi domando
se migliori di quel che siate suti
contra una donna, contra lor sarete?
Non credo io già, né voi forse il credete.
73
Questo vi può bastar; né vi bisogna
del valor vostro aver più chiara prova:
e quel di voi che temerario aggogna
far di sé in Francia esperienza nuova,
cerca giungere il danno alla vergogna
in che ieri ed oggi s'è trovato e trova;
se forse egli non stima utile e onore,
qualor per man di tai guerrier si muore. —
74
Poi che ben certi i cavallieri fece
Ullania, che quell'era una donzella,
la qual fatto avea nera più che pece
la fama lor, ch'esser solea sì bella;
e dove una bastava, più di diece
persone il detto confermar di quella;
essi fur per voltar l'arme in se stessi,
da tal dolor, da tanta rabbia oppressi.
75
E da lo sdegno e da la furia spinti,
l'arme si spoglian, quante n'hanno indosso;
né si lascian la spada onde eran cinti,
e del castel la gittano nel fosso:
e giuran, poi che gli ha una donna vinti,
e fatto sul terren battere il dosso,
che, per purgar sì grave error, staranno
senza mai vestir l'arme intero un anno;
76
e che n'andranno a piè pur tuttavia,
o sia la strada piana, o scenda e saglia;
né, poi che l'anno anco finito sia,
saran per cavalcare o vestir maglia,
s'altr'arme, altro destrier da lor non fia
guadagnato per forza di battaglia.
Così senz'arme, per punir lor fallo,
essi a piè se n'andar, gli altri a cavallo.
77
Bradamante la sera ad un castello
ch'alla via di Parigi si ritrova,
di Carlo e di Rinaldo suo fratello,
ch'avean rotto Agramante, udì la nuova.
Quivi ebbe buona mensa e buono ostello:
ma questo ed ogn'altro agio poco giova;
che poco mangia e poco dorme, e poco,
non che posar, ma ritrovar può loco.
78
Non però di costei voglio dir tanto,
ch'io non ritorni a quei duo cavallieri
che d'accordo legato aveano a canto
la solitaria fonte i duo destrieri.
La pugna lor, di che vo' dirvi alquanto,
non è per acquistar terre né imperi,
ma perché Durindana il più gagliardo
abbia ad avere, e a cavalcar Baiardo.
79
Senza che tromba o segno altro accennasse
quando a muover s'avean, senza maestro
che lo schermo e 'l ferir lor ricordasse,
e lor pungesse il cor d'animoso estro,
l'uno e l'altro d'accordo il ferro trasse,
e si venne a trovare agile e destro.
I spessi e gravi colpi a farsi udire
incominciaro, ed a scaldarsi l'ire.
80
Due spade altre non so per prova elette
ad esser ferme e solide e ben dure,
ch'a tre colpi di quei si fosser rette,
ch'erano fuor di tutte le misure:
ma quelle fur di tempre sì perfette,
per tante esperienze sì sicure,
che ben poteano insieme riscontrarsi
con mille colpi e più, senza spezzarsi.
81
Or qua Rinaldo, or là mutando il passo,
con gran destrezza e molta industria ed arte
fuggia di Durindana il gran fracasso,
che sa ben come spezza il ferro e parte.
Ferìa maggior percosse il re Gradasso;
ma quasi tutte al vento erano sparte:
se coglieva talor, coglieva in loco
ove potea gravare e nuocer poco.
82
L'altro con più ragion sua spada inchina,
e fa spesso al pagan stordir le braccia;
e quando ai fianchi e quando ove confina
la corazza con l'elmo, gli la caccia:
ma trova l'armatura adamantina,
sì ch'una maglia non ne rompe o straccia.
Se dura e forte la ritrova tanto,
avvien perch'ella è fatta per incanto.
83
Senza prender riposo erano stati
gran pezzo tanto alla battaglia fisi,
che volti gli occhi in nessun mai de' lati
aveano, fuor che nei turbati visi;
quando da un'altra zuffa distornati,
e da tanto furor furon divisi.
Ambi voltaro a un gran strepito il ciglio,
e videro Baiardo in gran periglio.
84
Vider Baiardo a zuffa con un mostro
ch'era più di lui grande, ed era augello:
avea più lungo di tre braccia il rostro;
l'altre fattezze avea di vipistrello;
avea la piuma negra come inchiostro;
avea l'artiglio grande, acuto e fello;
occhi di fuoco, e sguardo avea crudele;
l'ale avea grandi, che parean due vele.
85
Forse era vero augel, ma non so dove
o quando un altro ne sia stato tale.
Non ho veduto mai, né letto altrove,
fuor ch'in Turpin, d'un sì fatto animale:
questo rispetto a credere mi muove,
che l'augel fosse un diavolo infernale
che Malagigi in quella forma trasse,
acciò che la battaglia disturbasse.
86
Rinaldo il credette anco, e gran parole
e sconce poi con Malagigi n'ebbe.
Egli già confessar non glielo vuole;
e perché tor di colpa si vorrebbe,
giura pel lume che dà lume al sole,
che di questo imputato esser non debbe.
Fosse augello o demonio, il mostro scese
sopra Baiardo, e con l'artiglio il prese.
87
Le redine il destrier, ch'era possente,
subito rompe, e con sdegno e con ira
contra l'augello i calci adopra e 'l dente;
ma quel veloce in aria si ritira:
indi ritorna, e con l'ugna pungente
lo va battendo, e d'ogn'intorno aggira.
Baiardo offeso, e che non ha ragione
di schermo alcun, ratto a fuggir si pone.
88
Fugge Baiardo alla vicina selva,
e va cercando le più spesse fronde.
Segue di sopra la pennuta belva
con gli occhi fisi ove la via seconde;
ma pure il buon destrier tanto s'inselva,
ch'al fin sotto una grotta si nasconde.
Poi che l'alato ne perde la traccia,
ritorna in cielo, e cerca nuova caccia.
89
Rinaldo e 'l re Gradasso, che partire
veggono la cagion de la lor pugna,
restan d'accordo quella differire
fin che Baiardo salvino da l'ugna
che per la scura selva il fa fuggire;
con patto, che qual d'essi lo raggiugna,
a quella fonte lo restituisca,
ove la lite lor poi si finisca.
90
Seguendo, si partir da la fontana,
l'erbe novellamente in terra peste.
Molto da lor Baiardo s'allontana,
ch'ebbon le piante in seguir lui mal preste.
Gradasso, che non lungi avea l'alfana,
sopra vi salse, e per quelle foreste
molto lontano il paladin lasciosse,
tristo e peggio contento che mai fosse.
91
Rinaldo perdé l'orme in pochi passi
del suo destrier, che fe' strano viaggio;
ch'andò rivi cercando, arbori e sassi,
il più spinoso luogo, il più selvaggio,
acciò che da quella ugna si celassi,
che cadendo dal ciel gli facea oltraggio.
Rinaldo, dopo la fatica vana,
ritornò ad aspettarlo alla fontana,
92
se da Gradasso vi fosse condutto,
sì come tra lor dianzi si convenne.
Ma poi che far si vide poco frutto,
dolente e a piedi in campo se ne venne.
Or torniamo a quell'altro, al quale in tutto
diverso da Rinaldo il caso avvenne.
Non per ragion, ma per suo gran destino
sentì anitrire il buon destrier vicino;
93
e lo trovò ne la spelonca cava,
da l'avuta paura anco sì oppresso,
ch'uscire allo scoperto non osava:
perciò l'ha in suo potere il pagan messo.
Ben de la convenzion si raccordava,
ch'alla fonte tornar dovea con esso;
ma non è più disposto d'osservarla,
e così in mente sua tacito parla:
94
— Abbial chi aver lo vuol con lite e guerra:
io d'averlo con pace più disio.
Da l'uno all'altro capo de la terra
già venni, e sol per far Baiardo mio.
Or ch'io l'ho in mano, ben vaneggia ed erra
chi crede che depor lo volesse io.
Se Rinaldo lo vuol, non disconviene,
come io già in Francia, or s'egli in India viene.
95
Non men sicura a lui fia Sericana,
che già due volte Francia a me sia stata. —
Così dicendo, per la via più piana
ne venne in Arli, e vi trovò l'armata;
e quindi con Baiardo e Durindana
si partì sopra una galea spalmata.
Ma questo a un'altra volta; ch'or Gradasso,
Rinaldo e tutta Francia a dietro lasso.
96
Voglio Astolfo seguir, ch'a sella e a morso,
a uso facea andar di palafreno
l'ippogrifo per l'aria a sì gran corso,
che l'aquila e il falcon vola assai meno.
Poi che de' Galli ebbe il paese scorso
da un mare a l'altro e da Pirene al Reno,
tornò verso ponente alla montagna
che separa la Francia da la Spagna.
97
Passò in Navarra, ed indi in Aragona,
lasciando a chi 'l vedea gran maraviglia.
Restò lungi a sinistra Taracona,
Biscaglia a destra, ed arrivò in Castiglia.
Vide Gallizia e 'l regno d'Ulisbona,
poi volse il corso a Cordova e Siviglia;
né lasciò presso al mar né fra campagna
città, che non vedesse tutta Spagna.
98
Vide le Gade e la meta che pose
ai primi naviganti Ercole invitto.
Per l'Africa vagar poi si dispose
dal mar d'Atlante ai termini d'Egitto.
Vide le Baleariche famose,
e vide Eviza appresso al camin dritto.
Poi volse il freno, e tornò verso Arzilla
sopra 'l mar che da Spagna dipartilla.
99
Vide Marocco, Feza, Orano, Ippona,
Algier, Buzea, tutte città superbe,
c'hanno d'altre città tutte corona,
corona d'oro, e non di fronde o d'erbe.
Verso Biserta e Tunigi poi sprona:
vide Capisse e l'isola d'Alzerbe
e Tripoli e Bernicche e Tolomitta,
sin dove il Nilo in Asia si tragitta.
100
Tra la marina e la silvosa schena
del fiero Atlante vide ogni contrada.
Poi diè le spalle ai monti di Carena,
e sopra i Cirenei prese la strada;
e traversando i campi de l'arena,
venne a' confin di Nubia in Albaiada.
Rimase dietro il cimiter di Batto
e l'gran tempio d'Amon, ch'oggi è disfatto.
101
Indi giunse ad un'altra Tremisenne,
che di Maumetto pur segue lo stilo.
Poi volse agli altri Etiopi le penne,
che contra questi son di là dal Nilo.
Alla città di Nubia il camin tenne
tra Dobada e Coalle in aria a filo.
Questi cristiani son, quei saracini;
e stan con l'arme in man sempre a' confini.
102
Senapo imperator de la Etiopia,
ch'in loco tien di scettro in man la croce,
di gente, di cittadi e d'oro ha copia
quindi fin là dove il mar Rosso ha foce;
e serva quasi nostra fede propia,
che può salvarlo da l'esilio atroce.
Gli è, s'io non piglio errore, in questo loco
ove al battesmo loro usano un fuoco.
103
Dismontò il duca Astolfo alla gran corte
dentro di Nubia, e visitò il Senapo.
Il castello è più ricco assai che forte,
ove dimora d'Etiopia il capo.
Le catene dei ponti e de le porte,
gangheri e chiavistei da piedi a capo,
e finalmente tutto quel lavoro
che noi di ferro usiamo, ivi usan d'oro.
104
Ancor che del finissimo metallo
vi sia tale abondanza, è pur in pregio.
Colonnate di limpido cristallo
son le gran logge del palazzo regio.
Fan rosso, bianco, verde, azzurro e giallo
sotto i bei palchi un relucente fregio,
divisi tra proporzionati spazi,
rubin, smeraldi, zafiri e topazi.
105
In mura, in tetti, in pavimenti sparte
eran le perle, eran le ricche gemme.
Quivi il balsamo nasce; e poca parte
n'ebbe appo questi mai Ierusalemme.
Il muschio ch'a noi vien, quindi si parte;
quindi vien l'ambra, e cerca altre maremme:
vengon le cose in somma da quel canto,
che nei paesi nostri vaglion tanto.
106
Si dice che 'l soldan, re de l'Egitto,
a quel re dà tributo e sta suggetto,
perch'è in poter di lui dal camin dritto
levare il Nilo, e dargli altro ricetto,
e per questo lasciar subito afflitto
di fame il Cairo e tutto quel distretto.
Senapo detto è dai sudditi suoi;
gli diciàn Presto o Preteianni noi.
107
Di quanti re mai d'Etiopia foro,
il più ricco fu questi e il più possente;
ma con tutta sua possa e suo tesoro,
gli occhi perduti avea miseramente.
E questo era il minor d'ogni martoro:
molto era più noioso e più spiacente,
che, quantunque ricchissimo si chiame,
cruciato era da perpetua fame.
108
Se per mangiare o ber quello infelice
venìa cacciato dal bisogno grande,
tosto apparia l'infernal schiera ultrice,
le mostruose arpie brutte e nefande,
che col griffo e con l'ugna predatrice
spargeano i vasi, e rapian le vivande;
e quel che non capia lor ventre ingordo,
vi rimanea contaminato e lordo.
109
E questo, perch'essendo d'anni acerbo,
e vistosi levato in tanto onore,
che, oltre alle ricchezze, di più nerbo
era di tutti gli altri e di più core;
divenne, come Lucifer, superbo,
e pensò muover guerra al suo Fattore.
Con la sua gente la via prese al dritto
al monte onde esce il gran fiume d'Egitto.
110
Inteso avea che su quel monte alpestre,
ch'oltre alle nubi e presso al ciel si leva,
era quel paradiso che terrestre
si dice, ove abitò già Adamo ed Eva.
Con camelli, elefanti, e con pedestre
esercito, orgoglioso si moveva
con gran desir, se v'abitava gente,
di farla alle sue leggi ubbidiente.
111
Dio gli ripresse il temerario ardire,
e mandò l'angel suo tra quelle frotte,
che centomila ne fece morire,
e condannò lui di perpetua notte.
Alla sua mensa poi fece venire
l'orrendo mostro da l'infernal grotte,
che gli rapisce e contamina i cibi,
né lascia che ne gusti o ne delibi.
112
Ed in desperazion continua il messe
uno che già gli avea profetizzato
che le sue mense non sariano oppresse
da la rapina e da l'odore ingrato,
quando venir per l'aria si vedesse
un cavallier sopra un cavallo alato.
Perché dunque impossibil parea questo,
privo d'ogni speranza vivea mesto.
113
Or che con gran stupor vede la gente
sopra ogni muro e sopra ogn'alta torre
entrare il cavalliero, immantinente
è chi a narrarlo al re di Nubia corre,
a cui la profezia ritorna a mente;
ed obliando per letizia torre
la fedel verga, con le mani inante
vien brancolando al cavallier volante.
114
Astolfo ne la piazza del castello
con spaziose ruote in terra scese.
Poi che fu il re condotto inanzi a quello,
inginochiossi, e le man giunte stese,
e disse: — Angel di Dio, Messi novello,
s'io non merto perdono a tante offese,
mira che proprio è a noi peccar sovente,
a voi perdonar sempre a chi si pente.
115
Del mio error consapevole, non chieggio
né chiederti ardirei gli antiqui lumi.
Che tu lo possa far, ben creder deggio,
che sei de' cari a Dio beati numi.
Ti basti il gran martìr ch'io non ci veggio,
senza ch'ognor la fame mi consumi:
almen discaccia le fetide arpie,
che non rapiscan le vivande mie.
116
E di marmore un tempio ti prometto
edificar de l'alta regia mia,
che tutte d'oro abbia le porte e 'l tetto,
e dentro e fuor di gemme ornato sia;
e dal tuo santo nome sarà detto,
e del miracol tuo scolpito fia. —
Così dicea quel re che nulla vede,
cercando invan baciare al duca il piede.
117
Rispose Astolfo: — Né l'angel di Dio,
né son Messia novel, né dal cielo vegno;
ma son mortale e peccatore anch'io,
di tanta grazia a me concessa indegno.
Io farò ogn'opra acciò che 'l mostro rio,
per morte o fuga, io ti levi del regno.
S'io il fo, me non, ma Dio ne loda solo,
che per tuo aiuto qui mi drizzò il volo.
118
Fa questi voti a Dio, debiti a lui;
a lui le chiese edifica e gli altari. —
Così parlando, andavano ambidui
verso il castello fra i baron preclari.
Il re commanda ai servitori sui
che subito il convito si prepari,
sperando che non debba essergli tolta
la vivanda di mano a questa volta.
119
Dentro una ricca sala immantinente
apparecchiossi il convito solenne.
Col Senapo s'assise solamente
il duca Astolfo, e la vivanda venne.
Ecco per l'aria lo stridor si sente,
percossa intorno da l'orribil penne;
ecco venir l'arpie brutte e nefande,
tratte dal cielo a odor de le vivande.
120
Erano sette in una schiera, e tutte
volto di donne avean, pallide e smorte,
per lunga fame attenuate e asciutte,
orribili a veder più che la morte.
L'alaccie grandi avean, deformi e brutte;
le man rapaci, e l'ugne incurve e torte;
grande e fetido il ventre, e lunga coda,
come di serpe che s'aggira e snoda.
121
Si sentono venir per l'aria, e quasi
si veggon tutte a un tempo in su la mensa
rapire i cibi e riversare i vasi:
e molta feccia il ventre lor dispensa,
tal che gli è forza d'atturare i nasi;
che non si può patir la puzza immensa.
Astolfo, come l'ira lo sospinge,
contra gli ingordi augelli il ferro stringe.
122
Uno sul collo, un altro su la groppa
percuote, e chi nel petto, e chi ne l'ala;
ma come fera in su 'n sacco di stoppa,
poi langue il colpo, e senza effetto cala:
e quei non vi lasciar piatto né coppa
che fosse intatta, né sgombrar la sala,
prima che le rapine e il fiero pasto
contaminato il tutto avesse e guasto.
123
Avuto avea quel re ferma speranza
nel duca, che l'arpie gli discacciassi;
ed or che nulla ove sperar gli avanza,
sospira e geme, e disperato stassi.
Viene al duca del corno rimembranza,
che suole aitarlo ai perigliosi passi;
e conchiude tra sé, che questa via
per discacciare i mostri ottima sia.
124
E prima fa che 'l re con suoi baroni
di calda cera l'orecchia si serra,
acciò che tutti, come il corno suoni,
non abbiano a fuggir fuor de la terra.
Prende la briglia, e salta sugli arcioni
de l'ippogrifo, ed il bel corno afferra;
e con cenni allo scalco poi commanda
che riponga la mensa e la vivanda.
125
E così in una loggia s'apparecchia
con altra mensa altra vivanda nuova.
Ecco l'arpie che fan l'usanza vecchia:
Astolfo il corno subito ritrova.
Gli augelli, che non han chiusa l'orecchia,
udito il suon, non puon stare alla prova;
ma vanno in fuga pieni di paura,
né di cibo né d'altro hanno più cura.
126
Subito il paladin dietro lor sprona:
volando esce il destrier fuor de la loggia,
e col castel la gran città abandona,
e per l'aria, cacciando i mostri, poggia.
Astolfo il corno tuttavolta suona:
fuggon l'arpie verso la zona roggia,
tanto che sono all'altissimo monte
ove il Nilo ha, se in alcun luogo ha, fonte.
127
Quasi de la montagna alla radice
entra sotterra una profonda grotta,
che certissima porta esser si dice
di ch'allo 'nferno vuol scender talotta.
Quivi s'è quella turba predatrice,
come in sicuro albergo, ricondotta,
e giù sin di Cocito in su la proda
scesa, e più là, dove quel suon non oda.
128
All'infernal caliginosa buca
ch'apre la strada a chi abandona il lume,
finì l'orribil suon l'inclito duca,
e fe' raccorre al suo destrier le piume.
Ma prima che più inanzi io lo conduca,
per non mi dipartir dal mio costume,
poi che da tutti i lati ho pieno il foglio,
finire il canto, e riposar mi voglio.
CANTO TRENTAQUATTRESIMO
1
Oh famelice, inique e fiere arpie
ch'all'accecata Italia e d'error piena,
per punir forse antique colpe rie,
in ogni mensa alto giudicio mena!
Innocenti fanciulli e madri pie
cascan di fame, e veggon ch'una cena
di questi mostri rei tutto divora
ciò che del viver lor sostegno fôra.
2
Troppo fallò chi le spelonche aperse,
che già molt'anni erano state chiuse;
onde il fetore e l'ingordigia emerse,
ch'ad ammorbare Italia si diffuse.
Il bel vivere allora si summerse;
e la quiete in tal modo s'escluse,
ch'in guerre, in povertà sempre e in affanni
è dopo stata, ed è per star molt'anni:
3
fin ch'ella un giorno ai neghitosi figli
scuota la chioma, e cacci fuor di Lete,
gridando lor: — Non fia chi rassimigli
alla virtù di Calai e di Zete?
che le mense dal puzzo e dagli artigli
liberi, e torni a lor mondizia liete,
come essi già quelle di Fineo, e dopo
fe' il paladin quelle del re etiopo. —
4
Il paladin col suono orribil venne
le brutte arpie cacciando in fuga e in rotta,
tanto ch'a piè d'un monte si ritenne,
ove esse erano entrate in una grotta.
L'orecchie attente allo spiraglio tenne,
e l'aria ne sentì percossa e rotta
da pianti e d'urli e da lamento eterno:
segno evidente quivi esser lo 'nferno.
5
Astolfo si pensò d'entrarvi dentro,
e veder quei c'hanno perduto il giorno,
e penetrar la terra fin al centro,
e le bolge infernal cercare intorno.
— Di che debbo temer (dicea) s'io v'entro,
che mi posso aiutar sempre col corno?
Farò fuggir Plutone e Satanasso,
e 'l can trifauce leverò dal passo. —
6
De l'alato destrier presto discese,
e lo lasciò legato a un arbuscello:
poi si calò ne l'antro, e prima prese
il corno, avendo ogni sua speme in quello.
Non andò molto inanzi, che gli offese
il naso e gli occhi un fumo oscuro e fello,
più che di pece grave e che di zolfo:
non sta d'andar per questo inanzi Astolfo.
7
Ma quando va più inanzi, più s'ingrossa
il fumo e la caligine, e gli pare
ch'andare inanzi più troppo non possa;
che sarà forza a dietro ritornare.
Ecco, non sa che sia, vede far mossa
da la volta di sopra, come fare
il cadavero appeso al vento suole,
che molti dì sia stato all'acqua e al sole.
8
Sì poco, e quasi nulla era di luce
in quella affumicata e nera strada,
che non comprende e non discerne il duce
chi questo sia che sì per l'aria vada;
e per notizia averne si conduce
a dargli uno o due colpi de la spada.
Stima poi ch'un spirto esser quel debbia;
che gli par di ferir sopra la nebbia.
9
Allor sentì parlar con voce mesta:
— Deh, senza fare altrui danno, giù cala!
Pur troppo il negro fumo mi molesta,
che dal fuoco infernal qui tutto esala. —
Il duca stupefatto allor s'arresta,
e dice all'ombra: — Se Dio tronchi ogni ala
al fumo, sì ch'a te più non ascenda,
non ti dispiaccia che 'l tuo stato intenda.
10
E se vuoi che di te porti novella
nel mondo su, per satisfarti sono. —
L'ombra rispose: — Alla luce alma e bella
tornar per fama ancor sì mi par buono,
che le parole è forza che mi svella
il gran desir c'ho d'aver poi tal dono,
e che 'l mio nome e l'esser mio ti dica,
ben che 'l parlar mi sia noia e fatica. —
11
E cominciò: — Signor, Lidia sono io,
del re di Lidia in grande altezza nata,
qui dal giudicio altissimo di Dio
al fumo eternamente condannata,
per esser stata al fido amante mio,
mentre io vissi, spiacevole ed ingrata.
D'altre infinite è questa grotta piena,
poste per simil fallo in simil pena.
12
Sta la cruda Anassarete più al basso,
ove è maggiore il fumo e più martire.
Restò converso al mondo il corpo in sasso
e l'anima qua giù venne a patire,
poi che veder per lei l'afflitto e lasso
suo amante appeso poté sofferire.
Qui presso è Dafne, ch'or s'avvede quanto
errasse a fare Apollo correr tanto.
13
Lungo saria se gl'infelici spirti
de le femine ingrate, che qui stanno,
volesse ad uno ad uno riferirti;
che tanti son, ch'in infinito vanno.
Più lungo ancor saria gli uomini dirti,
a' quai l'essere ingrato ha fatto danno,
e che puniti sono in peggior loco,
ove il fumo gli accieca, e cuoce il fuoco.
14
Perché le donne più facili e prone
a creder son, di più supplicio è degno
chi lor fa inganno. Il sa Teseo e Iasone
e chi turbò a Latin l'antiquo regno;
sallo ch'incontra sé il frate Absalone
per Tamar trasse a sanguinoso sdegno;
ed altri ed altre: che sono infiniti,
che lasciato han chi moglie e chi mariti.
15
Ma per narrar di me più che d'altrui,
e palesar l'error che qui mi trasse,
bella, ma altiera più, sì in vita fui,
che non so s'altra mai mi s'aguagliasse:
né ti saprei ben dir, di questi dui,
s'in me l'orgoglio o la beltà avanzasse;
quantunque il fasto o l'alterezza nacque
da la beltà ch'a tutti gli occhi piacque.
16
Era in quel tempo in Tracia un cavalliero
estimato il miglior del mondo in arme,
il qual da più d'un testimonio vero
di singular beltà sentì lodarme;
tal che spontaneamente fe' pensiero
di volere il suo amor tutto donarme,
stimando meritar per suo valore,
che caro aver di lui dovessi il core.
17
In Lidia venne; e d'un laccio più forte
vinto restò, poi che veduta m'ebbe.
Con gli altri cavallier si messe in corte
del padre mio, dove in gran fama crebbe.
L'alto valore e le più d'una sorte
prodezze che mostrò, lungo sarebbe
a raccontarti, e il suo merto infinito,
quando egli avesse a più grato uom servito.
18
Panfilia e Caria e il regno de' Cilici
per opra di costui mio padre vinse;
che l'esercito mai contra i nimici,
se non quanto volea costui, non spinse.
Costui, poi che gli parve i benefici
suoi meritarlo, un dì col re si strinse
a domandargli in premio de le spoglie
tante arrecate, ch'io fossi sua moglie.
19
Fu repulso dal re, ch'in grande stato
maritar disegnava la figliuola,
non a costui che cavallier privato
altro non tien che la virtude sola:
e 'l padre mio troppo al guadagno dato,
e all'avarizia, d'ogni vizio scuola,
tanto apprezza costumi, o virtù ammira,
quanto l'asino fa il suon de la lira.
20
Alceste, il cavallier di ch'io ti parlo
(che così nome avea), poi che si vede
repulso da chi più gratificarlo
era più debitor, commiato chiede;
e lo minaccia, nel partir, di farlo
pentir che la figliuola non gli diede.
Se n'andò al re d'Armenia, emulo antico
del re di Lidia e capital nimico;
21
e tanto stimulò, che lo dispose
a pigliar l'arme e far guerra a mio padre.
Esso per l'opre sue chiare e famose
fu fatto capitan di quelle squadre.
Pel re d'Armenia tutte l'altre cose
disse ch'acquisteria: sol le leggiadre
e belle membra mie volea per frutto
de l'opra sua, vinto ch'avesse il tutto.
22
Io non ti potre' esprimere il gran danno
ch'Alceste al padre mio fa in quella guerra.
Quattro eserciti rompe, e in men d'un anno
lo mena a tal, che non gli lascia terra,
fuor ch'un castel ch'alte pendici fanno
fortissimo; e là dentro il re si serra
con la famiglia che più gli era accetta,
e col tesor che trar vi puote in fretta.
23
Quivi assedionne Alceste; ed in non molto
termine a tal disperazion ne trasse,
che per buon patto avria mio padre tolto
che moglie e serva ancor me gli lasciasse
con la metà del regno, s'indi assolto
restar d'ogni altro danno si sperasse.
Vedersi in breve de l'avanzo privo
era ben certo, e poi morir captivo.
24
Tentar, prima ch'accada, si dispone
ogni rimedio che possibil sia;
e me, che d'ogni male era cagione,
fuor de la rocca, ov'era Alceste invia.
Io vo ad Alceste con intenzione
di dargli in preda la persona mia,
e pregar che la parte che vuol tolga
del regno nostro, e l'ira in pace volga.
25
Come ode Alceste ch'io vo a ritrovarlo,
mi viene incontra pallido e tremante:
di vinto e di prigione, a riguardarlo,
più che di vincitore, have sembiante.
Io che conosco ch'arde, non gli parlo
sì come avea già disegnato inante:
vista l'occasion, fo pensier nuovo
conveniente al grado in ch'io lo trovo.
26
A maledir comincio l'amor d'esso,
e di sua crudeltà troppo a dolermi,
ch'iniquamente abbia mio padre oppresso,
e che per forza abbia cercato avermi;
che con più grazia gli saria successo
indi a non molti dì, se tener fermi
saputo avesse i modi cominciati,
ch'al re ed a tutti noi sì furon grati.
27
E se ben da principio il padre mio
gli avea negata la domanda onesta
(però che di natura è un poco rio,
né mai si piega alla prima richiesta),
farsi per ciò di ben servir restio
non doveva egli, e aver l'ira sì presta;
anzi, ognor meglio oprando, tener certo
venire in breve al desiato merto.
28
E quando anco mio padre a lui ritroso
stato fosse, io l'avrei tanto pregato,
ch'avria l'amante mio fatto mio sposo.
Pur, se veduto io l'avessi ostinato,
avrei fatto tal opra di nascoso,
che di me Alceste si saria lodato.
Ma poi ch'a lui tentar parve altro modo,
io di mai non l'amar fisso avea il chiodo.
29
E se ben era a lui venuta, mossa
da la pietà ch'al mio padre portava,
sia certo che non molto fruir possa
il piacer ch'al dispetto mio gli dava;
ch'era per far di me la terra rossa,
tosto ch'io avessi alla sua voglia prava
con questa mia persona satisfatto
di quel che tutto a forza saria fatto.
30
Queste parole e simili altre usai,
poi che potere in lui mi vidi tanto;
e 'l più pentito lo rendei, che mai
si trovasse ne l'eremo alcun santo.
Mi cadde a' piedi, e supplicommi assai,
che col coltel che si levò da canto
(e volea in ogni modo ch'io 'l pigliassi)
di tanto fallo suo mi vendicassi.
31
Poi ch'io lo trovo tale, io fo disegno
la gran vittoria insin al fin seguire:
gli do speranza di farlo anco degno
che la persona mia potrà fruire,
s'emendando il suo error, l'antiquo regno
al padre mio farà restituire;
e nel tempo a venir vorrà acquistarme
servendo, amando, e non mai più per arme.
32
Così far mi promesse, e ne la rocca
intatta mi mandò, come a lui venni,
né di baciarmi pur s'ardì la bocca:
vedi s'al collo il giogo ben gli tenni;
vedi se bene Amor per me lo tocca,
se convien che per lui più strali impenni.
Al re d'Armenia andò, di cui dovea
esser per patto ciò che si prendea:
33
e con quel miglior modo ch'usar puote,
lo priega ch'al mio padre il regno lassi,
del qual le terre ha depredate e vote,
ed a goder l'antiqua Armenia passi.
Quel re, d'ira infiammando ambe le gote,
disse ad Alceste che non vi pensassi;
che non si volea tor da quella guerra,
fin che mio padre avea palmo di terra.
34
E s'Alceste è mutato alle parole
d'una vil feminella, abbiasi il danno.
Già a' prieghi esso di lui perder non vuole
quel ch'a fatica ha preso in tutto un anno.
Di nuovo Alceste il priega, e poi si duole
che seco effetto i prieghi suoi non fanno.
All'ultimo s'adira, e lo minaccia
che vuol, per forza o per amor, lo faccia.
35
L'ira multiplicò sì, che li spinse
da le male parole ai peggior fatti.
Alceste contra il re la spada strinse
fra mille ch'in suo aiuto s'eran tratti,
e mal grado lor tutti, ivi l'estinse;
e quel dì ancor gli Armeni ebbe disfatti,
con l'aiuto de' Cilici e de' Traci
che pagava egli, e d'altri suoi seguaci.
36
Seguitò la vittoria, ed a sue spese,
senza dispendio alcun del padre mio,
ne rendé tutto il regno in men d'un mese.
Poi per ricompensarne il danno rio,
oltr'alle spoglie che ne diede, prese
in parte, e gravò in parte di gran fio
Armenia e Capadocia che confina,
e scorse Ircania fin su la marina.
37
In luogo di trionfo, al suo ritorno,
facemmo noi pensier dargli la morte.
Restammo poi, per non ricever scorno;
che lo veggiàn troppo d'amici forte.
Fingo d'amarlo, e più di giorno in giorno
gli do speranza d'essergli consorte;
ma prima contra altri nimici nostri
dico voler che sua virtù dimostri.
38
E quando sol, quando con poca gente
lo mando a strane imprese e perigliose,
da farne morir mille agevolmente:
ma lui successer ben tutte le cose;
che tornò con vittoria, e fu sovente
con orribil persone e mostruose,
con Griganti a battaglia e Lestrigoni,
ch'erano infesti a nostre regioni.
39
Non fu da Euristeo mai, non fu mai tanto
da la matrigna esercitato Alcide
in Lerna, in Nemea, in Tracia, in Erimanto,
alle valli d'Etolia, alle Numide,
sul Tevre, su l'Ibero e altrove; quanto
con prieghi finti e con voglie omicide
esercitato fu da me il mio amante,
cercando io pur di torlomi davante.
40
Né potendo venire al primo intento,
vengone ad un di non minore effetto:
gli fo quei tutti ingiuriar, ch'io sento
che per lui sono, e a tutti in odio il metto.
Egli che non sentia maggior contento
che d'ubbidirmi, senza alcun rispetto
le mani ai cenni miei sempre avea pronte,
senza guardare un più d'un altro in fronte.
41
Poi che mi fu, per questo mezzo, aviso
spento aver del mio padre ogni nimico,
e per lui stesso Alceste aver conquiso,
che non si avea, per noi, lasciato amico;
quel ch'io gli avea con simulato viso
celato fin allor, chiaro gli esplico:
che grave e capitale odio gli porto,
e pur tuttavia cerco che sia morto.
42
Considerando poi, s'io lo facessi,
ch'in publica ignominia ne verrei
(sapeasi troppo quanto io gli dovessi,
e crudel detta sempre ne sarei),
mi parve fare assai ch'io gli togliessi
di mai venir più inanzi agli occhi miei.
Né veder né parlar mai più gli volsi,
né messo udi', né lettera ne tolsi.
43
Questa mia ingratitudine gli diede
tanto martìr, ch'al fin dal dolor vinto,
e dopo un lungo domandar mercede,
infermo cadde, e ne rimase estinto.
Per pena ch'al fallir mio si richiede,
or gli occhi ho lacrimosi, e il viso tinto
del negro fumo: e così avrò in eterno;
che nulla redenzione è ne l'inferno. —
44
Poi che non parla più Lidia infelice,
va il duca per saper s'altri vi stanzi:
ma la caligine alta ch'era ultrice
de l'opre ingrate, si gl'ingrossa inanzi,
ch'andare un palmo sol più non gli lice;
anzi a forza tornar gli conviene, anzi,
perché la vita non gli sia intercetta
dal fumo, i passi accelerar con fretta.
45
Il mutar spesso de le piante ha vista
di corso, e non di chi passeggia o trotta.
Tanto, salendo inverso l'erta, acquista,
che vede dove aperta era la grotta;
e l'aria, già caliginosa e trista,
dal lume cominciava ad esser rotta.
Al fin con molto affanno e grave ambascia
esce de l'antro, e dietro il fumo lascia.
46
E perché del tornar la via sia tronca
a quelle bestie c'han sì ingorde l'epe,
raguna sassi, e molti arbori tronca,
che v'eran qual d'amomo e qual di pepe;
e come può, dinanzi alla spelonca
fabrica di sua man quasi una siepe:
e gli succede così ben quell'opra,
che più l'arpie non torneran di sopra.
47
Il negro fumo de la scura pece,
mentre egli fu ne la caverna tetra,
non macchiò sol quel ch'apparia, ed infece,
ma sotto i panni ancora entra e penètra;
sì che per trovare acqua andar lo fece
cercando un pezzo; e al fin fuor d'una pietra
vide una fonte uscir ne la foresta,
ne la qual si lavò dal piè alla testa.
48
Poi monta il volatore, e in aria s'alza
per giunger di quel monte in su la cima,
che non lontan con la superna balza
dal cerchio de la luna esser si stima.
Tanto è il desir che di veder lo 'ncalza,
ch'al cielo aspira, e la terra non stima.
De l'aria più e più sempre guadagna,
tanto ch'al giogo va de la montagna.
49
Zafir, rubini, oro, topazi e perle,
e diamanti e crisoliti e iacinti
potriano i fiori assimigliar, che per le
liete piaggie v'avea l'aura dipinti:
sì verdi l'erbe, che possendo averle
qua giù, ne fôran gli smeraldi vinti;
né men belle degli arbori le frondi,
e di frutti e di fior sempre fecondi.
