Non han si aspri sterpi ne si folti
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi colti.
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi colti.
Dante - La Divina Commedia
>>.
E io: <<Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago>>.
Ed elli a me: <<Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disio convien che tu goda>>.
Dopo cio poco vid' io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: <<A Filippo Argenti! >>;
e 'l fiorentino spirito bizzarro
in se medesmo si volvea co' denti.
Quivi il lasciammo, che piu non ne narro;
ma ne l'orecchie mi percosse un duolo,
per ch'io avante l'occhio intento sbarro.
Lo buon maestro disse: <<Omai, figliuolo,
s'appressa la citta c'ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo>>.
E io: <<Maestro, gia le sue meschite
la entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
fossero>>. Ed ei mi disse: <<Il foco etterno
ch'entro l'affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno>>.
Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.
Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
<<Usciteci>>, grido: <<qui e l'intrata>>.
Io vidi piu di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: <<Chi e costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente? >>.
E 'l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: <<Vien tu solo, e quei sen vada
che si ardito intro per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; che tu qui rimarrai,
che li ha' iscorta si buia contrada>>.
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
che non credetti ritornarci mai.
<<O caro duca mio, che piu di sette
volte m'hai sicurta renduta e tratto
d'alto periglio che 'ncontra mi stette,
non mi lasciar>>, diss' io, <<cosi disfatto;
e se 'l passar piu oltre ci e negato,
ritroviam l'orme nostre insieme ratto>>.
E quel segnor che li m'avea menato,
mi disse: <<Non temer; che 'l nostro passo
non ci puo torre alcun: da tal n'e dato.
Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch'i' non ti lascero nel mondo basso>>.
Cosi sen va, e quivi m'abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che si e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello ch'a lor porse;
ma ei non stette la con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que' nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri:
<<Chi m'ha negate le dolenti case! >>.
E a me disse: <<Tu, perch' io m'adiri,
non sbigottir, ch'io vincero la prova,
qual ch'a la difension dentro s'aggiri.
Questa lor tracotanza non e nova;
che gia l'usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr' essa vedestu la scritta morta:
e gia di qua da lei discende l'erta,
passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta>>.
Inferno ? Canto IX
Quel color che vilta di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
piu tosto dentro il suo novo ristrinse.
Attento si fermo com' uom ch'ascolta;
che l'occhio nol potea menare a lunga
per l'aere nero e per la nebbia folta.
<<Pur a noi converra vincer la punga>>,
comincio el, <<se non . . . Tal ne s'offerse.
Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga! >>.
I' vidi ben si com' ei ricoperse
lo cominciar con l'altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch' io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.
<<In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca? >>.
Questa question fec' io; e quei <<Di rado
incontra>>, mi rispuose, <<che di noi
faccia il cammino alcun per qual io vado.
Ver e ch'altra fiata qua giu fui,
congiurato da quella Eriton cruda
che richiamava l'ombre a' corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
ch'ella mi fece intrar dentr' a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
Quell' e 'l piu basso loco e 'l piu oscuro,
e 'l piu lontan dal ciel che tutto gira:
ben so 'l cammin; pero ti fa sicuro.
Questa palude che 'l gran puzzo spira
cigne dintorno la citta dolente,
u' non potemo intrare omai sanz' ira>>.
E altro disse, ma non l'ho a mente;
pero che l'occhio m'avea tutto tratto
ver' l'alta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l'etterno pianto,
<<Guarda>>, mi disse, <<le feroci Erine.
Quest' e Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro e Aletto;
Tesifon e nel mezzo>>; e tacque a tanto.
Con l'unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan si alto,
ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.
<<Vegna Medusa: si 'l farem di smalto>>,
dicevan tutte riguardando in giuso;
<<mal non vengiammo in Teseo l'assalto>>.
<<Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso;
che se 'l Gorgon si mostra e tu 'l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso>>.
Cosi disse 'l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.
O voi ch'avete li 'ntelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.
E gia venia su per le torbide onde
un fracasso d'un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che d'un vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz' alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
Li occhi mi sciolse e disse: <<Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo e piu acerbo>>.
Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l'acqua si dileguan tutte,
fin ch'a la terra ciascuna s'abbica,
vid' io piu di mille anime distrutte
fuggir cosi dinanzi ad un ch'al passo
passava Stige con le piante asciutte.
Dal volto rimovea quell' aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell' angoscia parea lasso.
Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fe segno
ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.
<<O cacciati del ciel, gente dispetta>>,
comincio elli in su l'orribil soglia,
<<ond' esta oltracotanza in voi s'alletta?
Perche recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che piu volte v'ha cresciuta doglia?
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo>>.
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fe motto a noi, ma fe sembiante
d'omo cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che li e davante;
e noi movemmo i piedi inver' la terra,
sicuri appresso le parole sante.
Dentro li 'ntrammo sanz' alcuna guerra;
e io, ch'avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
com' io fui dentro, l'occhio intorno invio:
e veggio ad ogne man grande campagna,
piena di duolo e di tormento rio.
Si come ad Arli, ove Rodano stagna,
si com' a Pola, presso del Carnaro
ch'Italia chiude e suoi termini bagna,
fanno i sepulcri tutt' il loco varo,
cosi facevan quivi d'ogne parte,
salvo che 'l modo v'era piu amaro;
che tra li avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran si del tutto accesi,
che ferro piu non chiede verun' arte.
Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n'uscivan si duri lamenti,
che ben parean di miseri e d'offesi.
E io: <<Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell' arche,
si fan sentir coi sospiri dolenti? >>.
E quelli a me: <<Qui son li eresiarche
con lor seguaci, d'ogne setta, e molto
piu che non credi son le tombe carche.
Simile qui con simile e sepolto,
e i monimenti son piu e men caldi>>.
E poi ch'a la man destra si fu volto,
passammo tra i martiri e li alti spaldi.
Inferno ? Canto X
Ora sen va per un secreto calle,
tra 'l muro de la terra e li martiri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
<<O virtu somma, che per li empi giri
mi volvi>>, cominciai, <<com' a te piace,
parlami, e sodisfammi a' miei disiri.
La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? gia son levati
tutt' i coperchi, e nessun guardia face>>.
E quelli a me: <<Tutti saran serrati
quando di Iosafat qui torneranno
coi corpi che la su hanno lasciati.
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l'anima col corpo morta fanno.
Pero a la dimanda che mi faci
quinc' entro satisfatto sara tosto,
e al disio ancor che tu mi taci>>.
E io: <<Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m'hai non pur mo a cio disposto>>.
<<O Tosco che per la citta del foco
vivo ten vai cosi parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio,
a la qual forse fui troppo molesto>>.
Subitamente questo suono uscio
d'una de l'arche; pero m'accostai,
temendo, un poco piu al duca mio.
Ed el mi disse: <<Volgiti! Che fai?
Vedi la Farinata che s'e dritto:
da la cintola in su tutto 'l vedrai>>.
Io avea gia il mio viso nel suo fitto;
ed el s'ergea col petto e con la fronte
com' avesse l'inferno a gran dispitto.
E l'animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: <<Le parole tue sien conte>>.
Com' io al pie de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimando: <<Chi fuor li maggior tui? >>.
Io ch'era d'ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel' apersi;
ond' ei levo le ciglia un poco in suso;
poi disse: <<Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
si che per due fiate li dispersi>>.
<<S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte>>,
rispuos' io lui, <<l'una e l'altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell' arte>>.
Allor surse a la vista scoperchiata
un'ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s'era in ginocchie levata.
Dintorno mi guardo, come talento
avesse di veder s'altri era meco;
e poi che 'l sospecciar fu tutto spento,
piangendo disse: <<Se per questo cieco
carcere vai per altezza d'ingegno,
mio figlio ov' e? e perche non e teco? >>.
E io a lui: <<Da me stesso non vegno:
colui ch'attende la, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno>>.
Le sue parole e 'l modo de la pena
m'avean di costui gia letto il nome;
pero fu la risposta cosi piena.
Di subito drizzato grido: <<Come?
dicesti "elli ebbe"? non viv' elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume? >>.
Quando s'accorse d'alcuna dimora
ch'io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e piu non parve fora.
Ma quell' altro magnanimo, a cui posta
restato m'era, non muto aspetto,
ne mosse collo, ne piego sua costa;
e se continuando al primo detto,
<<S'elli han quell' arte>>, disse, <<male appresa,
cio mi tormenta piu che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell' arte pesa.
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perche quel popolo e si empio
incontr' a' miei in ciascuna sua legge? >>.
Ond' io a lui: <<Lo strazio e 'l grande scempio
che fece l'Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio>>.
Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso,
<<A cio non fu' io sol>>, disse, <<ne certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu' io solo, la dove sofferto
fu per ciascun di torre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto>>.
<<Deh, se riposi mai vostra semenza>>,
prega' io lui, <<solvetemi quel nodo
che qui ha 'nviluppata mia sentenza.
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che 'l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo>>.
<<Noi veggiam, come quei c'ha mala luce,
le cose>>, disse, <<che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s'appressano o son, tutto e vano
nostro intelletto; e s'altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.
Pero comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta>>.
Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: <<Or direte dunque a quel caduto
che 'l suo nato e co' vivi ancor congiunto;
e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che 'l fei perche pensava
gia ne l'error che m'avete soluto>>.
E gia 'l maestro mio mi richiamava;
per ch'i' pregai lo spirto piu avaccio
che mi dicesse chi con lu' istava.
Dissemi: <<Qui con piu di mille giaccio:
qua dentro e 'l secondo Federico
e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio>>.
Indi s'ascose; e io inver' l'antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.
Elli si mosse; e poi, cosi andando,
mi disse: <<Perche se' tu si smarrito? >>.
E io li sodisfeci al suo dimando.
<<La mente tua conservi quel ch'udito
hai contra te>>, mi comando quel saggio;
<<e ora attendi qui>>, e drizzo 'l dito:
<<quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell' occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il viaggio>>.
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo
per un sentier ch'a una valle fiede,
che 'nfin la su facea spiacer suo lezzo.
Inferno ? Canto XI
In su l'estremita d'un'alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,
venimmo sopra piu crudele stipa;
e quivi, per l'orribile soperchio
del puzzo che 'l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio
d'un grand' avello, ov' io vidi una scritta
che dicea: 'Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta'.
<<Lo nostro scender conviene esser tardo,
si che s'ausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo>>.
Cosi 'l maestro; e io <<Alcun compenso>>,
dissi lui, <<trova che 'l tempo non passi
perduto>>. Ed elli: <<Vedi ch'a cio penso>>.
<<Figliuol mio, dentro da cotesti sassi>>,
comincio poi a dir, <<son tre cerchietti
di grado in grado, come que' che lassi.
Tutti son pien di spirti maladetti;
ma perche poi ti basti pur la vista,
intendi come e perche son costretti.
D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista,
ingiuria e 'l fine, ed ogne fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista.
Ma perche frode e de l'uom proprio male,
piu spiace a Dio; e pero stan di sotto
li frodolenti, e piu dolor li assale.
Di violenti il primo cerchio e tutto;
ma perche si fa forza a tre persone,
in tre gironi e distinto e costrutto.
A Dio, a se, al prossimo si pone
far forza, dico in loro e in lor cose,
come udirai con aperta ragione.
Morte per forza e ferute dogliose
nel prossimo si danno, e nel suo avere
ruine, incendi e tollette dannose;
onde omicide e ciascun che mal fiere,
guastatori e predon, tutti tormenta
lo giron primo per diverse schiere.
Puote omo avere in se man violenta
e ne' suoi beni; e pero nel secondo
giron convien che sanza pro si penta
qualunque priva se del vostro mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
e piange la dov' esser de' giocondo.
Puossi far forza ne la deitade,
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua bontade;
e pero lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.
La frode, ond' ogne coscienza e morsa,
puo l'omo usare in colui che 'n lui fida
e in quel che fidanza non imborsa.
Questo modo di retro par ch'incida
pur lo vinco d'amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s'annida
ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsita, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.
Per l'altro modo quell' amor s'oblia
che fa natura, e quel ch'e poi aggiunto,
di che la fede spezial si cria;
onde nel cerchio minore, ov' e 'l punto
de l'universo in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno e consunto>>.
E io: <<Maestro, assai chiara procede
la tua ragione, e assai ben distingue
questo baratro e 'l popol ch'e' possiede.
Ma dimmi: quei de la palude pingue,
che mena il vento, e che batte la pioggia,
e che s'incontran con si aspre lingue,
perche non dentro da la citta roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perche sono a tal foggia? >>.
Ed elli a me <<Perche tanto delira>>,
disse, <<lo 'ngegno tuo da quel che sole?
o ver la mente dove altrove mira?
Non ti rimembra di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che 'l ciel non vole,
incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta?
Se tu riguardi ben questa sentenza,
e rechiti a la mente chi son quelli
che su di fuor sostegnon penitenza,
tu vedrai ben perche da questi felli
sien dipartiti, e perche men crucciata
la divina vendetta li martelli>>.
<<O sol che sani ogne vista turbata,
tu mi contenti si quando tu solvi,
che, non men che saver, dubbiar m'aggrata.
Ancora in dietro un poco ti rivolvi>>,
diss' io, <<la dove di' ch'usura offende
la divina bontade, e 'l groppo solvi>>.
<<Filosofia>>, mi disse, <<a chi la 'ntende,
nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende
dal divino 'ntelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,
che l'arte vostra quella, quanto pote,
segue, come 'l maestro fa 'l discente;
si che vostr' arte a Dio quasi e nepote.
Da queste due, se tu ti rechi a mente
lo Genesi dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente;
e perche l'usuriere altra via tene,
per se natura e per la sua seguace
dispregia, poi ch'in altro pon la spene.
Ma seguimi oramai che 'l gir mi piace;
che i Pesci guizzan su per l'orizzonta,
e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace,
e 'l balzo via la oltra si dismonta>>.
Inferno ? Canto XII
Era lo loco ov' a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v'er' anco,
tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva.
Qual e quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l'Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano e si la roccia discoscesa,
ch'alcuna via darebbe a chi su fosse:
cotal di quel burrato era la scesa;
e 'n su la punta de la rotta lacca
l'infamia di Creti era distesa
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, se stesso morse,
si come quei cui l'ira dentro fiacca.
Lo savio mio inver' lui grido: <<Forse
tu credi che qui sia 'l duca d'Atene,
che su nel mondo la morte ti porse?
Partiti, bestia, che questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene>>.
Qual e quel toro che si slaccia in quella
c'ha ricevuto gia 'l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e la saltella,
vid' io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto grido: <<Corri al varco;
mentre ch'e' 'nfuria, e buon che tu ti cale>>.
Cosi prendemmo via giu per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.
Io gia pensando; e quei disse: <<Tu pensi
forse a questa ruina, ch'e guardata
da quell' ira bestial ch'i' ora spensi.
Or vo' che sappi che l'altra fiata
ch'i' discesi qua giu nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levo a Dite del cerchio superno,
da tutte parti l'alta valle feda
tremo si, ch'i' pensai che l'universo
sentisse amor, per lo qual e chi creda
piu volte il mondo in caosso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia,
qui e altrove, tal fece riverso.
Ma ficca li occhi a valle, che s'approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per violenza in altrui noccia>>.
Oh cieca cupidigia e ira folle,
che si ci sproni ne la vita corta,
e ne l'etterna poi si mal c'immolle!
Io vidi un'ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto 'l piano abbraccia,
secondo ch'avea detto la mia scorta;
e tra 'l pie de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.
Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;
e l'un grido da lungi: <<A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l'arco tiro>>.
Lo mio maestro disse: <<La risposta
farem noi a Chiron costa di presso:
mal fu la voglia tua sempre si tosta>>.
Poi mi tento, e disse: <<Quelli e Nesso,
che mori per la bella Deianira,
e fe di se la vendetta elli stesso.
E quel di mezzo, ch'al petto si mira,
e il gran Chiron, il qual nodri Achille;
quell' altro e Folo, che fu si pien d'ira.
Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue piu che sua colpa sortille>>.
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chiron prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.
Quando s'ebbe scoperta la gran bocca,
disse a' compagni: <<Siete voi accorti
che quel di retro move cio ch'el tocca?
Cosi non soglion far li pie d'i morti>>.
E 'l mio buon duca, che gia li er' al petto,
dove le due nature son consorti,
rispuose: <<Ben e vivo, e si soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessita 'l ci 'nduce, e non diletto.
Tal si parti da cantare alleluia
che mi commise quest' officio novo:
non e ladron, ne io anima fuia.
Ma per quella virtu per cu' io movo
li passi miei per si selvaggia strada,
danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo,
e che ne mostri la dove si guada,
e che porti costui in su la groppa,
che non e spirto che per l'aere vada>>.
Chiron si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: <<Torna, e si li guida,
e fa cansar s'altra schiera v'intoppa>>.
Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e 'l gran centauro disse: <<E' son tiranni
che dier nel sangue e ne l'aver di piglio.
Quivi si piangon li spietati danni;
quivi e Alessandro, e Dionisio fero
che fe Cicilia aver dolorosi anni.
E quella fronte c'ha 'l pel cosi nero,
e Azzolino; e quell' altro ch'e biondo,
e Opizzo da Esti, il qual per vero
fu spento dal figliastro su nel mondo>>.
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
<<Questi ti sia or primo, e io secondo>>.
Poco piu oltre il centauro s'affisse
sovr' una gente che 'nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.
Mostrocci un'ombra da l'un canto sola,
dicendo: <<Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola>>.
Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto 'l casso;
e di costoro assai riconobb' io.
Cosi a piu a piu si facea basso
quel sangue, si che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo.
<<Si come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema>>,
disse 'l centauro, <<voglio che tu credi
che da quest' altra a piu a piu giu prema
lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.
La divina giustizia di qua punge
quell' Attila che fu flagello in terra,
e Pirro e Sesto; e in etterno munge
le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra>>.
Poi si rivolse e ripassossi 'l guazzo.
Inferno ? Canto XIII
Non era ancor di la Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tosco.
Non han si aspri sterpi ne si folti
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi colti.
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late, e colli e visi umani,
pie con artigli, e pennuto 'l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.
E 'l buon maestro <<Prima che piu entre,
sappi che se' nel secondo girone>>,
mi comincio a dire, <<e sarai mentre
che tu verrai ne l'orribil sabbione.
Pero riguarda ben; si vederai
cose che torrien fede al mio sermone>>.
Io sentia d'ogne parte trarre guai
e non vedea persona che 'l facesse;
per ch'io tutto smarrito m'arrestai.
Cred' io ch'ei credette ch'io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.
Pero disse 'l maestro: <<Se tu tronchi
qualche fraschetta d'una d'este piante,
li pensier c'hai si faran tutti monchi>>.
Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e 'l tronco suo grido: <<Perche mi schiante? >>.
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricomincio a dir: <<Perche mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb' esser la tua man piu pia,
se state fossimo anime di serpi>>.
Come d'un stizzo verde ch'arso sia
da l'un de' capi, che da l'altro geme
e cigola per vento che va via,
si de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond' io lasciai la cima
cadere, e stetti come l'uom che teme.
<<S'elli avesse potuto creder prima>>,
rispuose 'l savio mio, <<anima lesa,
cio c'ha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti, si che 'n vece
d'alcun' ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo su, dove tornar li lece>>.
E 'l tronco: <<Si col dolce dir m'adeschi,
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
perch' io un poco a ragionar m'inveschi.
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, si soavi,
che dal secreto suo quasi ogn' uom tolsi;
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.
La meretrice che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammo contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar si Augusto,
che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.
L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici d'esto legno
vi giuro che gia mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d'onor si degno.
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che 'nvidia le diede>>.
Un poco attese, e poi <<Da ch'el si tace>>,
disse 'l poeta a me, <<non perder l'ora;
ma parla, e chiedi a lui, se piu ti piace>>.
Ond' io a lui: <<Domandal tu ancora
di quel che credi ch'a me satisfaccia;
ch'i' non potrei, tanta pieta m'accora>>.
Percio ricomincio: <<Se l'om ti faccia
liberamente cio che 'l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia
di dirne come l'anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s'alcuna mai di tai membra si spiega>>.
Allor soffio il tronco forte, e poi
si converti quel vento in cotal voce:
<<Brievemente sara risposto a voi.
Quando si parte l'anima feroce
dal corpo ond' ella stessa s'e disvelta,
Minos la manda a la settima foce.
Cade in la selva, e non l'e parte scelta;
ma la dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.
Surge in vermena e in pianta silvestra:
l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.
Come l'altre verrem per nostre spoglie,
ma non pero ch'alcuna sen rivesta,
che non e giusto aver cio ch'om si toglie.
Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta>>.
Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch'altro ne volesse dire,
quando noi fummo d'un romor sorpresi,
similemente a colui che venire
sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
ch'ode le bestie, e le frasche stormire.
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo si forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.
Quel dinanzi: <<Or accorri, accorri, morte! >>.
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: <<Lano, si non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo! >>.
E poi che forse li fallia la lena,
di se e d'un cespuglio fece un groppo.
Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch'uscisser di catena.
In quel che s'appiatto miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.
<<O Iacopo>>, dicea, <<da Santo Andrea,
che t'e giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea? >>.
Quando 'l maestro fu sovr' esso fermo,
disse: <<Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo? >>.
Ed elli a noi: <<O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c'ha le mie fronde si da me disgiunte,
raccoglietele al pie del tristo cesto.
I' fui de la citta che nel Batista
muto 'l primo padrone; ond' ei per questo
sempre con l'arte sua la fara trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,
que' cittadin che poi la rifondarno
sovra 'l cener che d'Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
Io fei gibetto a me de le mie case>>.
Inferno ? Canto XIV
Poi che la carita del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende'le a colui, ch'era gia fioco.
Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.
A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.
La dolorosa selva l'e ghirlanda
intorno, come 'l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa.
Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d'altra foggia fatta che colei
che fu da' pie di Caton gia soppressa.
O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
cio che fu manifesto a li occhi mei!
D'anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.
Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continuamente.
Quella che giva 'ntorno era piu molta,
e quella men che giacea al tormento,
ma piu al duolo avea la lingua sciolta.
Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.
Quali Alessandro in quelle parti calde
d'India vide sopra 'l suo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,
per ch'ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, accio che lo vapore
mei si stingueva mentre ch'era solo:
tale scendeva l'etternale ardore;
onde la rena s'accendea, com' esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.
Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da se l'arsura fresca.
I' cominciai: <<Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che ' demon duri
ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci,
chi e quel grande che non par che curi
lo 'ncendio e giace dispettoso e torto,
si che la pioggia non par che 'l marturi? >>.
E quel medesmo, che si fu accorto
ch'io domandava il mio duca di lui,
grido: <<Qual io fui vivo, tal son morto.
Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l'ultimo di percosso fui;
o s'elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta! ",
si com' el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra>>.
Allora il duca mio parlo di forza
tanto, ch'i' non l'avea si forte udito:
<<O Capaneo, in cio che non s'ammorza
la tua superbia, se' tu piu punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito>>.
Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: <<Quei fu l'un d'i sette regi
ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia
Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi;
ma, com' io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.
Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti>>.
Tacendo divenimmo la 've spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giu sen giva quello.
Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt' era 'n pietra, e ' margini dallato;
per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici.
<<Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno e negato,
cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com' e 'l presente rio,
che sovra se tutte fiammelle ammorta>>.
Queste parole fuor del duca mio;
per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto
di cui largito m'avea il disio.
<<In mezzo mar siede un paese guasto>>,
diss' elli allora, <<che s'appella Creta,
sotto 'l cui rege fu gia 'l mondo casto.
Una montagna v'e che gia fu lieta
d'acqua e di fronde, che si chiamo Ida;
or e diserta come cosa vieta.
Rea la scelse gia per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida.
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver' Dammiata
e Roma guarda come suo speglio.
La sua testa e di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e 'l petto,
poi e di rame infino a la forcata;
da indi in giuso e tutto ferro eletto,
salvo che 'l destro piede e terra cotta;
e sta 'n su quel, piu che 'n su l'altro, eretto.
Ciascuna parte, fuor che l'oro, e rotta
d'una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, foran quella grotta.
Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giu per questa stretta doccia,
infin, la ove piu non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, pero qui non si conta>>.
E io a lui: <<Se 'l presente rigagno
si diriva cosi dal nostro mondo,
perche ci appar pur a questo vivagno? >>.
Ed elli a me: <<Tu sai che 'l loco e tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giu calando al fondo,
non se' ancor per tutto 'l cerchio volto;
per che, se cosa n'apparisce nova,
non de' addur maraviglia al tuo volto>>.
E io ancor: <<Maestro, ove si trova
Flegetonta e Lete? che de l'un taci,
e l'altro di' che si fa d'esta piova>>.
<<In tutte tue question certo mi piaci>>,
rispuose, <<ma 'l bollor de l'acqua rossa
dovea ben solver l'una che tu faci.
Lete vedrai, ma fuor di questa fossa,
la dove vanno l'anime a lavarsi
quando la colpa pentuta e rimossa>>.
Poi disse: <<Omai e tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,
e sopra loro ogne vapor si spegne>>.
Inferno ? Canto XV
Ora cen porta l'un de' duri margini;
e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia,
si che dal foco salva l'acqua e li argini.
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa,
fanno lo schermo perche 'l mar si fuggia;
e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:
a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che ne si alti ne si grossi,
qual che si fosse, lo maestro felli.
Gia eravam da la selva rimossi
tanto, ch'i' non avrei visto dov' era,
perch' io in dietro rivolto mi fossi,
quando incontrammo d'anime una schiera
che venian lungo l'argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera
guardare uno altro sotto nuova luna;
e si ver' noi aguzzavan le ciglia
come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.
Cosi adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e grido: <<Qual maraviglia! >>.
E io, quando 'l suo braccio a me distese,
ficcai li occhi per lo cotto aspetto,
si che 'l viso abbrusciato non difese
la conoscenza sua al mio 'ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: <<Siete voi qui, ser Brunetto? >>.
E quelli: <<O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia>>.
I' dissi lui: <<Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m'asseggia,
farol, se piace a costui che vo seco>>.
<<O figliuol>>, disse, <<qual di questa greggia
s'arresta punto, giace poi cent' anni
sanz' arrostarsi quando 'l foco il feggia.
Pero va oltre: i' ti verro a' panni;
e poi rigiugnero la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni>>.
Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma 'l capo chino
tenea com' uom che reverente vada.
El comincio: <<Qual fortuna o destino
anzi l'ultimo di qua giu ti mena?
e chi e questi che mostra 'l cammino? >>.
<<La su di sopra, in la vita serena>>,
rispuos' io lui, <<mi smarri' in una valle,
avanti che l'eta mia fosse piena.
Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m'apparve, tornand' io in quella,
e reducemi a ca per questo calle>>.
Ed elli a me: <<Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorioso porto,
se ben m'accorsi ne la vita bella;
e s'io non fossi si per tempo morto,
veggendo il cielo a te cosi benigno,
dato t'avrei a l'opera conforto.
Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si fara, per tuo ben far, nimico;
ed e ragion, che tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent' e avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l'una parte e l'altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l'erba.
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s'alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que' Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta>>.
<<Se fosse tutto pieno il mio dimando>>,
rispuos' io lui, <<voi non sareste ancora
de l'umana natura posto in bando;
che 'n la mente m'e fitta, e or m'accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m'insegnavate come l'uom s'etterna:
e quant' io l'abbia in grado, mentr' io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.
Cio che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che sapra, s'a lei arrivo.
Tanto vogl' io che vi sia manifesto,
pur che mia coscienza non mi garra,
ch'a la Fortuna, come vuol, son presto.
Non e nuova a li orecchi miei tal arra:
pero giri Fortuna la sua rota
come le piace, e 'l villan la sua marra>>.
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: <<Bene ascolta chi la nota>>.
Ne per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni piu noti e piu sommi.
Ed elli a me: <<Saper d'alcuno e buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
che 'l tempo saria corto a tanto suono.
In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d'un peccato medesmo al mondo lerci.
Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d'Accorso anche; e vedervi,
s'avessi avuto di tal tigna brama,
colui potei che dal servo de' servi
fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione,
dove lascio li mal protesi nervi.
Di piu direi; ma 'l venire e 'l sermone
piu lungo esser non puo, pero ch'i' veggio
la surger nuovo fummo del sabbione.
Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e piu non cheggio>>.
Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.
Inferno ? Canto XVI
Gia era in loco onde s'udia 'l rimbombo
de l'acqua che cadea ne l'altro giro,
simile a quel che l'arnie fanno rombo,
quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d'una torma che passava
sotto la pioggia de l'aspro martiro.
Venian ver' noi, e ciascuna gridava:
<<Sostati tu ch'a l'abito ne sembri
esser alcun di nostra terra prava>>.
Ahime, che piaghe vidi ne' lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri.
A le lor grida il mio dottor s'attese;
volse 'l viso ver' me, e <<Or aspetta>>,
disse, <<a costor si vuole esser cortese.
E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i' dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta>>.
Ricominciar, come noi restammo, ei
l'antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di se tutti e trei.
Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti,
cosi rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, si che 'n contraro il collo
faceva ai pie continuo viaggio.
E <<Se miseria d'esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi>>,
comincio l'uno, <<e 'l tinto aspetto e brollo,
la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se', che i vivi piedi
cosi sicuro per lo 'nferno freghi.
Questi, l'orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:
nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada.
L'altro, ch'appresso me la rena trita,
e Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo su dovria esser gradita.
E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie piu ch'altro mi nuoce>>.
S'i' fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che 'l dottor l'avria sofferto;
ma perch' io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.
Poi cominciai: <<Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia,
tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i' mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse.
Di vostra terra sono, e sempre mai
l'ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai.
Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi>>.
<<Se lungamente l'anima conduca
le membra tue>>, rispuose quelli ancora,
<<e se la fama tua dopo te luca,
cortesia e valor di se dimora
ne la nostra citta si come suole,
o se del tutto se n'e gita fora;
che Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va la coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole>>.
<<La gente nuova e i subiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, si che tu gia ten piagni>>.
Cosi gridai con la faccia levata;
e i tre, che cio inteser per risposta,
guardar l'un l'altro com' al ver si guata.
<<Se l'altre volte si poco ti costa>>,
rispuoser tutti, <<il satisfare altrui,
felice te se si parli a tua posta!
Pero, se campi d'esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti giovera dicere "I' fui",
fa che di noi a la gente favelle>>.
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle.
Un amen non saria possuto dirsi
tosto cosi com' e' fuoro spariti;
per ch'al maestro parve di partirsi.
Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che 'l suon de l'acqua n'era si vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi.
Come quel fiume c'ha proprio cammino
prima dal Monte Viso 'nver' levante,
da la sinistra costa d'Apennino,
che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giu nel basso letto,
e a Forli di quel nome e vacante,
rimbomba la sovra San Benedetto
de l'Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;
cosi, giu d'una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell' acqua tinta,
si che 'n poc' ora avria l'orecchia offesa.
Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.
Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta,
si come 'l duca m'avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.
Ond' ei si volse inver' lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gitto giuso in quell' alto burrato.
'E' pur convien che novita risponda',
dicea fra me medesmo, 'al novo cenno
che 'l maestro con l'occhio si seconda'.
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l'ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!
El disse a me: <<Tosto verra di sovra
cio ch'io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch'al tuo viso si scovra>>.
Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna
de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote,
pero che sanza colpa fa vergogna;
ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedia, lettor, ti giuro,
s'elle non sien di lunga grazia vote,
ch'i' vidi per quell' aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,
si come torna colui che va giuso
talora a solver l'ancora ch'aggrappa
o scoglio o altro che nel mare e chiuso,
che 'n su si stende e da pie si rattrappa.
Inferno ? Canto XVII
<<Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l'armi!
Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza! >>.
Si comincio lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
vicino al fin d'i passeggiati marmi.
E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivo la testa e 'l busto,
ma 'n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia d'uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d'un serpente tutto l'altro fusto;
due branche avea pilose insin l'ascelle;
lo dosso e 'l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.
Con piu color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari ne Turchi,
ne fuor tai tele per Aragne imposte.
Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come la tra li Tedeschi lurchi
lo bivero s'assetta a far sua guerra,
cosi la fiera pessima si stava
su l'orlo ch'e di pietra e 'l sabbion serra.
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in su la venenosa forca
ch'a guisa di scorpion la punta armava.
Lo duca disse: <<Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che cola si corca>>.
Pero scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella.
E quando noi a lei venuti semo,
poco piu oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.
Quivi 'l maestro <<Accio che tutta piena
esperienza d'esto giron porti>>,
mi disse, <<va, e vedi la lor mena.
Li tuoi ragionamenti sian la corti;
mentre che torni, parlero con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti>>.
Cosi ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta.
Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di la soccorrien con le mani
quando a' vapori, e quando al caldo suolo:
non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col pie, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.
Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne' quali 'l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi
che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch'avea certo colore e certo segno,
e quindi par che 'l loro occhio si pasca.
E com' io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che d'un leone avea faccia e contegno.
Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un'altra come sangue rossa,
mostrando un'oca bianca piu che burro.
E un che d'una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: <<Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e perche se' vivo anco,
sappi che 'l mio vicin Vitaliano
sedera qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fiate mi 'ntronan li orecchi
gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano,
che rechera la tasca con tre becchi! ">>.
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che 'l naso lecchi.
E io, temendo no 'l piu star crucciasse
lui che di poco star m'avea 'mmonito,
torna'mi in dietro da l'anime lasse.
Trova' il duca mio ch'era salito
gia su la groppa del fiero animale,
e disse a me: <<Or sie forte e ardito.
Omai si scende per si fatte scale;
monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo,
si che la coda non possa far male>>.
Qual e colui che si presso ha 'l riprezzo
de la quartana, c'ha gia l'unghie smorte,
e triema tutto pur guardando 'l rezzo,
tal divenn' io a le parole porte;
ma vergogna mi fe le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.
I' m'assettai in su quelle spallacce;
si volli dir, ma la voce non venne
com' io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'.
Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch'i' montai
con le braccia m'avvinse e mi sostenne;
e disse: <<Gerion, moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco;
pensa la nova soma che tu hai>>.
Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, si quindi si tolse;
e poi ch'al tutto si senti a gioco,
la 'v' era 'l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l'aere a se raccolse.
Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandono li freni,
per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse;
ne quando Icaro misero le reni
senti spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui <<Mala via tieni! >>,
che fu la mia, quando vidi ch'i' era
ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.
Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n'accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta.
Io sentia gia da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi 'n giu la testa sporgo.
Allor fu' io piu timido a lo stoscio,
pero ch'i' vidi fuochi e senti' pianti;
ond' io tremando tutto mi raccoscio.
E vidi poi, che nol vedea davanti,
lo scendere e 'l girar per li gran mali
che s'appressavan da diversi canti.
Come 'l falcon ch'e stato assai su l'ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere <<Ome, tu cali! >>,
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;
cosi ne puose al fondo Gerione
al pie al pie de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone,
si dileguo come da corda cocca.
Inferno ? Canto XVIII
Luogo e in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.
E io: <<Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago>>.
Ed elli a me: <<Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disio convien che tu goda>>.
Dopo cio poco vid' io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: <<A Filippo Argenti! >>;
e 'l fiorentino spirito bizzarro
in se medesmo si volvea co' denti.
Quivi il lasciammo, che piu non ne narro;
ma ne l'orecchie mi percosse un duolo,
per ch'io avante l'occhio intento sbarro.
Lo buon maestro disse: <<Omai, figliuolo,
s'appressa la citta c'ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo>>.
E io: <<Maestro, gia le sue meschite
la entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
fossero>>. Ed ei mi disse: <<Il foco etterno
ch'entro l'affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno>>.
Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.
Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
<<Usciteci>>, grido: <<qui e l'intrata>>.
Io vidi piu di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: <<Chi e costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente? >>.
E 'l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: <<Vien tu solo, e quei sen vada
che si ardito intro per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; che tu qui rimarrai,
che li ha' iscorta si buia contrada>>.
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
che non credetti ritornarci mai.
<<O caro duca mio, che piu di sette
volte m'hai sicurta renduta e tratto
d'alto periglio che 'ncontra mi stette,
non mi lasciar>>, diss' io, <<cosi disfatto;
e se 'l passar piu oltre ci e negato,
ritroviam l'orme nostre insieme ratto>>.
E quel segnor che li m'avea menato,
mi disse: <<Non temer; che 'l nostro passo
non ci puo torre alcun: da tal n'e dato.
Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch'i' non ti lascero nel mondo basso>>.
Cosi sen va, e quivi m'abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che si e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello ch'a lor porse;
ma ei non stette la con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que' nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri:
<<Chi m'ha negate le dolenti case! >>.
E a me disse: <<Tu, perch' io m'adiri,
non sbigottir, ch'io vincero la prova,
qual ch'a la difension dentro s'aggiri.
Questa lor tracotanza non e nova;
che gia l'usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr' essa vedestu la scritta morta:
e gia di qua da lei discende l'erta,
passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta>>.
Inferno ? Canto IX
Quel color che vilta di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
piu tosto dentro il suo novo ristrinse.
Attento si fermo com' uom ch'ascolta;
che l'occhio nol potea menare a lunga
per l'aere nero e per la nebbia folta.
<<Pur a noi converra vincer la punga>>,
comincio el, <<se non . . . Tal ne s'offerse.
Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga! >>.
I' vidi ben si com' ei ricoperse
lo cominciar con l'altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch' io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.
<<In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca? >>.
Questa question fec' io; e quei <<Di rado
incontra>>, mi rispuose, <<che di noi
faccia il cammino alcun per qual io vado.
Ver e ch'altra fiata qua giu fui,
congiurato da quella Eriton cruda
che richiamava l'ombre a' corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
ch'ella mi fece intrar dentr' a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
Quell' e 'l piu basso loco e 'l piu oscuro,
e 'l piu lontan dal ciel che tutto gira:
ben so 'l cammin; pero ti fa sicuro.
Questa palude che 'l gran puzzo spira
cigne dintorno la citta dolente,
u' non potemo intrare omai sanz' ira>>.
E altro disse, ma non l'ho a mente;
pero che l'occhio m'avea tutto tratto
ver' l'alta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l'etterno pianto,
<<Guarda>>, mi disse, <<le feroci Erine.
Quest' e Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro e Aletto;
Tesifon e nel mezzo>>; e tacque a tanto.
Con l'unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan si alto,
ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.
<<Vegna Medusa: si 'l farem di smalto>>,
dicevan tutte riguardando in giuso;
<<mal non vengiammo in Teseo l'assalto>>.
<<Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso;
che se 'l Gorgon si mostra e tu 'l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso>>.
Cosi disse 'l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.
O voi ch'avete li 'ntelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.
E gia venia su per le torbide onde
un fracasso d'un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che d'un vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz' alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
Li occhi mi sciolse e disse: <<Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo e piu acerbo>>.
Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l'acqua si dileguan tutte,
fin ch'a la terra ciascuna s'abbica,
vid' io piu di mille anime distrutte
fuggir cosi dinanzi ad un ch'al passo
passava Stige con le piante asciutte.
Dal volto rimovea quell' aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell' angoscia parea lasso.
Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fe segno
ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.
<<O cacciati del ciel, gente dispetta>>,
comincio elli in su l'orribil soglia,
<<ond' esta oltracotanza in voi s'alletta?
Perche recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che piu volte v'ha cresciuta doglia?
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo>>.
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fe motto a noi, ma fe sembiante
d'omo cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che li e davante;
e noi movemmo i piedi inver' la terra,
sicuri appresso le parole sante.
Dentro li 'ntrammo sanz' alcuna guerra;
e io, ch'avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
com' io fui dentro, l'occhio intorno invio:
e veggio ad ogne man grande campagna,
piena di duolo e di tormento rio.
Si come ad Arli, ove Rodano stagna,
si com' a Pola, presso del Carnaro
ch'Italia chiude e suoi termini bagna,
fanno i sepulcri tutt' il loco varo,
cosi facevan quivi d'ogne parte,
salvo che 'l modo v'era piu amaro;
che tra li avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran si del tutto accesi,
che ferro piu non chiede verun' arte.
Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n'uscivan si duri lamenti,
che ben parean di miseri e d'offesi.
E io: <<Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell' arche,
si fan sentir coi sospiri dolenti? >>.
E quelli a me: <<Qui son li eresiarche
con lor seguaci, d'ogne setta, e molto
piu che non credi son le tombe carche.
Simile qui con simile e sepolto,
e i monimenti son piu e men caldi>>.
E poi ch'a la man destra si fu volto,
passammo tra i martiri e li alti spaldi.
Inferno ? Canto X
Ora sen va per un secreto calle,
tra 'l muro de la terra e li martiri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
<<O virtu somma, che per li empi giri
mi volvi>>, cominciai, <<com' a te piace,
parlami, e sodisfammi a' miei disiri.
La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? gia son levati
tutt' i coperchi, e nessun guardia face>>.
E quelli a me: <<Tutti saran serrati
quando di Iosafat qui torneranno
coi corpi che la su hanno lasciati.
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l'anima col corpo morta fanno.
Pero a la dimanda che mi faci
quinc' entro satisfatto sara tosto,
e al disio ancor che tu mi taci>>.
E io: <<Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m'hai non pur mo a cio disposto>>.
<<O Tosco che per la citta del foco
vivo ten vai cosi parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio,
a la qual forse fui troppo molesto>>.
Subitamente questo suono uscio
d'una de l'arche; pero m'accostai,
temendo, un poco piu al duca mio.
Ed el mi disse: <<Volgiti! Che fai?
Vedi la Farinata che s'e dritto:
da la cintola in su tutto 'l vedrai>>.
Io avea gia il mio viso nel suo fitto;
ed el s'ergea col petto e con la fronte
com' avesse l'inferno a gran dispitto.
E l'animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: <<Le parole tue sien conte>>.
Com' io al pie de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimando: <<Chi fuor li maggior tui? >>.
Io ch'era d'ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel' apersi;
ond' ei levo le ciglia un poco in suso;
poi disse: <<Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
si che per due fiate li dispersi>>.
<<S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte>>,
rispuos' io lui, <<l'una e l'altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell' arte>>.
Allor surse a la vista scoperchiata
un'ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s'era in ginocchie levata.
Dintorno mi guardo, come talento
avesse di veder s'altri era meco;
e poi che 'l sospecciar fu tutto spento,
piangendo disse: <<Se per questo cieco
carcere vai per altezza d'ingegno,
mio figlio ov' e? e perche non e teco? >>.
E io a lui: <<Da me stesso non vegno:
colui ch'attende la, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno>>.
Le sue parole e 'l modo de la pena
m'avean di costui gia letto il nome;
pero fu la risposta cosi piena.
Di subito drizzato grido: <<Come?
dicesti "elli ebbe"? non viv' elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume? >>.
Quando s'accorse d'alcuna dimora
ch'io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e piu non parve fora.
Ma quell' altro magnanimo, a cui posta
restato m'era, non muto aspetto,
ne mosse collo, ne piego sua costa;
e se continuando al primo detto,
<<S'elli han quell' arte>>, disse, <<male appresa,
cio mi tormenta piu che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell' arte pesa.
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perche quel popolo e si empio
incontr' a' miei in ciascuna sua legge? >>.
Ond' io a lui: <<Lo strazio e 'l grande scempio
che fece l'Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio>>.
Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso,
<<A cio non fu' io sol>>, disse, <<ne certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu' io solo, la dove sofferto
fu per ciascun di torre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto>>.
<<Deh, se riposi mai vostra semenza>>,
prega' io lui, <<solvetemi quel nodo
che qui ha 'nviluppata mia sentenza.
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che 'l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo>>.
<<Noi veggiam, come quei c'ha mala luce,
le cose>>, disse, <<che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s'appressano o son, tutto e vano
nostro intelletto; e s'altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.
Pero comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta>>.
Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: <<Or direte dunque a quel caduto
che 'l suo nato e co' vivi ancor congiunto;
e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che 'l fei perche pensava
gia ne l'error che m'avete soluto>>.
E gia 'l maestro mio mi richiamava;
per ch'i' pregai lo spirto piu avaccio
che mi dicesse chi con lu' istava.
Dissemi: <<Qui con piu di mille giaccio:
qua dentro e 'l secondo Federico
e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio>>.
Indi s'ascose; e io inver' l'antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.
Elli si mosse; e poi, cosi andando,
mi disse: <<Perche se' tu si smarrito? >>.
E io li sodisfeci al suo dimando.
<<La mente tua conservi quel ch'udito
hai contra te>>, mi comando quel saggio;
<<e ora attendi qui>>, e drizzo 'l dito:
<<quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell' occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il viaggio>>.
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo
per un sentier ch'a una valle fiede,
che 'nfin la su facea spiacer suo lezzo.
Inferno ? Canto XI
In su l'estremita d'un'alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,
venimmo sopra piu crudele stipa;
e quivi, per l'orribile soperchio
del puzzo che 'l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio
d'un grand' avello, ov' io vidi una scritta
che dicea: 'Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta'.
<<Lo nostro scender conviene esser tardo,
si che s'ausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo>>.
Cosi 'l maestro; e io <<Alcun compenso>>,
dissi lui, <<trova che 'l tempo non passi
perduto>>. Ed elli: <<Vedi ch'a cio penso>>.
<<Figliuol mio, dentro da cotesti sassi>>,
comincio poi a dir, <<son tre cerchietti
di grado in grado, come que' che lassi.
Tutti son pien di spirti maladetti;
ma perche poi ti basti pur la vista,
intendi come e perche son costretti.
D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista,
ingiuria e 'l fine, ed ogne fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista.
Ma perche frode e de l'uom proprio male,
piu spiace a Dio; e pero stan di sotto
li frodolenti, e piu dolor li assale.
Di violenti il primo cerchio e tutto;
ma perche si fa forza a tre persone,
in tre gironi e distinto e costrutto.
A Dio, a se, al prossimo si pone
far forza, dico in loro e in lor cose,
come udirai con aperta ragione.
Morte per forza e ferute dogliose
nel prossimo si danno, e nel suo avere
ruine, incendi e tollette dannose;
onde omicide e ciascun che mal fiere,
guastatori e predon, tutti tormenta
lo giron primo per diverse schiere.
Puote omo avere in se man violenta
e ne' suoi beni; e pero nel secondo
giron convien che sanza pro si penta
qualunque priva se del vostro mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
e piange la dov' esser de' giocondo.
Puossi far forza ne la deitade,
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua bontade;
e pero lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.
La frode, ond' ogne coscienza e morsa,
puo l'omo usare in colui che 'n lui fida
e in quel che fidanza non imborsa.
Questo modo di retro par ch'incida
pur lo vinco d'amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s'annida
ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsita, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.
Per l'altro modo quell' amor s'oblia
che fa natura, e quel ch'e poi aggiunto,
di che la fede spezial si cria;
onde nel cerchio minore, ov' e 'l punto
de l'universo in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno e consunto>>.
E io: <<Maestro, assai chiara procede
la tua ragione, e assai ben distingue
questo baratro e 'l popol ch'e' possiede.
Ma dimmi: quei de la palude pingue,
che mena il vento, e che batte la pioggia,
e che s'incontran con si aspre lingue,
perche non dentro da la citta roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perche sono a tal foggia? >>.
Ed elli a me <<Perche tanto delira>>,
disse, <<lo 'ngegno tuo da quel che sole?
o ver la mente dove altrove mira?
Non ti rimembra di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che 'l ciel non vole,
incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta?
Se tu riguardi ben questa sentenza,
e rechiti a la mente chi son quelli
che su di fuor sostegnon penitenza,
tu vedrai ben perche da questi felli
sien dipartiti, e perche men crucciata
la divina vendetta li martelli>>.
<<O sol che sani ogne vista turbata,
tu mi contenti si quando tu solvi,
che, non men che saver, dubbiar m'aggrata.
Ancora in dietro un poco ti rivolvi>>,
diss' io, <<la dove di' ch'usura offende
la divina bontade, e 'l groppo solvi>>.
<<Filosofia>>, mi disse, <<a chi la 'ntende,
nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende
dal divino 'ntelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,
che l'arte vostra quella, quanto pote,
segue, come 'l maestro fa 'l discente;
si che vostr' arte a Dio quasi e nepote.
Da queste due, se tu ti rechi a mente
lo Genesi dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente;
e perche l'usuriere altra via tene,
per se natura e per la sua seguace
dispregia, poi ch'in altro pon la spene.
Ma seguimi oramai che 'l gir mi piace;
che i Pesci guizzan su per l'orizzonta,
e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace,
e 'l balzo via la oltra si dismonta>>.
Inferno ? Canto XII
Era lo loco ov' a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v'er' anco,
tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva.
Qual e quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l'Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano e si la roccia discoscesa,
ch'alcuna via darebbe a chi su fosse:
cotal di quel burrato era la scesa;
e 'n su la punta de la rotta lacca
l'infamia di Creti era distesa
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, se stesso morse,
si come quei cui l'ira dentro fiacca.
Lo savio mio inver' lui grido: <<Forse
tu credi che qui sia 'l duca d'Atene,
che su nel mondo la morte ti porse?
Partiti, bestia, che questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene>>.
Qual e quel toro che si slaccia in quella
c'ha ricevuto gia 'l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e la saltella,
vid' io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto grido: <<Corri al varco;
mentre ch'e' 'nfuria, e buon che tu ti cale>>.
Cosi prendemmo via giu per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.
Io gia pensando; e quei disse: <<Tu pensi
forse a questa ruina, ch'e guardata
da quell' ira bestial ch'i' ora spensi.
Or vo' che sappi che l'altra fiata
ch'i' discesi qua giu nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levo a Dite del cerchio superno,
da tutte parti l'alta valle feda
tremo si, ch'i' pensai che l'universo
sentisse amor, per lo qual e chi creda
piu volte il mondo in caosso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia,
qui e altrove, tal fece riverso.
Ma ficca li occhi a valle, che s'approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per violenza in altrui noccia>>.
Oh cieca cupidigia e ira folle,
che si ci sproni ne la vita corta,
e ne l'etterna poi si mal c'immolle!
Io vidi un'ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto 'l piano abbraccia,
secondo ch'avea detto la mia scorta;
e tra 'l pie de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.
Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;
e l'un grido da lungi: <<A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l'arco tiro>>.
Lo mio maestro disse: <<La risposta
farem noi a Chiron costa di presso:
mal fu la voglia tua sempre si tosta>>.
Poi mi tento, e disse: <<Quelli e Nesso,
che mori per la bella Deianira,
e fe di se la vendetta elli stesso.
E quel di mezzo, ch'al petto si mira,
e il gran Chiron, il qual nodri Achille;
quell' altro e Folo, che fu si pien d'ira.
Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue piu che sua colpa sortille>>.
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chiron prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.
Quando s'ebbe scoperta la gran bocca,
disse a' compagni: <<Siete voi accorti
che quel di retro move cio ch'el tocca?
Cosi non soglion far li pie d'i morti>>.
E 'l mio buon duca, che gia li er' al petto,
dove le due nature son consorti,
rispuose: <<Ben e vivo, e si soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessita 'l ci 'nduce, e non diletto.
Tal si parti da cantare alleluia
che mi commise quest' officio novo:
non e ladron, ne io anima fuia.
Ma per quella virtu per cu' io movo
li passi miei per si selvaggia strada,
danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo,
e che ne mostri la dove si guada,
e che porti costui in su la groppa,
che non e spirto che per l'aere vada>>.
Chiron si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: <<Torna, e si li guida,
e fa cansar s'altra schiera v'intoppa>>.
Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e 'l gran centauro disse: <<E' son tiranni
che dier nel sangue e ne l'aver di piglio.
Quivi si piangon li spietati danni;
quivi e Alessandro, e Dionisio fero
che fe Cicilia aver dolorosi anni.
E quella fronte c'ha 'l pel cosi nero,
e Azzolino; e quell' altro ch'e biondo,
e Opizzo da Esti, il qual per vero
fu spento dal figliastro su nel mondo>>.
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
<<Questi ti sia or primo, e io secondo>>.
Poco piu oltre il centauro s'affisse
sovr' una gente che 'nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.
Mostrocci un'ombra da l'un canto sola,
dicendo: <<Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola>>.
Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto 'l casso;
e di costoro assai riconobb' io.
Cosi a piu a piu si facea basso
quel sangue, si che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo.
<<Si come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema>>,
disse 'l centauro, <<voglio che tu credi
che da quest' altra a piu a piu giu prema
lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.
La divina giustizia di qua punge
quell' Attila che fu flagello in terra,
e Pirro e Sesto; e in etterno munge
le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra>>.
Poi si rivolse e ripassossi 'l guazzo.
Inferno ? Canto XIII
Non era ancor di la Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tosco.
Non han si aspri sterpi ne si folti
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi colti.
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late, e colli e visi umani,
pie con artigli, e pennuto 'l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.
E 'l buon maestro <<Prima che piu entre,
sappi che se' nel secondo girone>>,
mi comincio a dire, <<e sarai mentre
che tu verrai ne l'orribil sabbione.
Pero riguarda ben; si vederai
cose che torrien fede al mio sermone>>.
Io sentia d'ogne parte trarre guai
e non vedea persona che 'l facesse;
per ch'io tutto smarrito m'arrestai.
Cred' io ch'ei credette ch'io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.
Pero disse 'l maestro: <<Se tu tronchi
qualche fraschetta d'una d'este piante,
li pensier c'hai si faran tutti monchi>>.
Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e 'l tronco suo grido: <<Perche mi schiante? >>.
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricomincio a dir: <<Perche mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb' esser la tua man piu pia,
se state fossimo anime di serpi>>.
Come d'un stizzo verde ch'arso sia
da l'un de' capi, che da l'altro geme
e cigola per vento che va via,
si de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond' io lasciai la cima
cadere, e stetti come l'uom che teme.
<<S'elli avesse potuto creder prima>>,
rispuose 'l savio mio, <<anima lesa,
cio c'ha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti, si che 'n vece
d'alcun' ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo su, dove tornar li lece>>.
E 'l tronco: <<Si col dolce dir m'adeschi,
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
perch' io un poco a ragionar m'inveschi.
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, si soavi,
che dal secreto suo quasi ogn' uom tolsi;
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.
La meretrice che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammo contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar si Augusto,
che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.
L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici d'esto legno
vi giuro che gia mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d'onor si degno.
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che 'nvidia le diede>>.
Un poco attese, e poi <<Da ch'el si tace>>,
disse 'l poeta a me, <<non perder l'ora;
ma parla, e chiedi a lui, se piu ti piace>>.
Ond' io a lui: <<Domandal tu ancora
di quel che credi ch'a me satisfaccia;
ch'i' non potrei, tanta pieta m'accora>>.
Percio ricomincio: <<Se l'om ti faccia
liberamente cio che 'l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia
di dirne come l'anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s'alcuna mai di tai membra si spiega>>.
Allor soffio il tronco forte, e poi
si converti quel vento in cotal voce:
<<Brievemente sara risposto a voi.
Quando si parte l'anima feroce
dal corpo ond' ella stessa s'e disvelta,
Minos la manda a la settima foce.
Cade in la selva, e non l'e parte scelta;
ma la dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.
Surge in vermena e in pianta silvestra:
l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.
Come l'altre verrem per nostre spoglie,
ma non pero ch'alcuna sen rivesta,
che non e giusto aver cio ch'om si toglie.
Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta>>.
Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch'altro ne volesse dire,
quando noi fummo d'un romor sorpresi,
similemente a colui che venire
sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
ch'ode le bestie, e le frasche stormire.
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo si forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.
Quel dinanzi: <<Or accorri, accorri, morte! >>.
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: <<Lano, si non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo! >>.
E poi che forse li fallia la lena,
di se e d'un cespuglio fece un groppo.
Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch'uscisser di catena.
In quel che s'appiatto miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.
<<O Iacopo>>, dicea, <<da Santo Andrea,
che t'e giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea? >>.
Quando 'l maestro fu sovr' esso fermo,
disse: <<Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo? >>.
Ed elli a noi: <<O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c'ha le mie fronde si da me disgiunte,
raccoglietele al pie del tristo cesto.
I' fui de la citta che nel Batista
muto 'l primo padrone; ond' ei per questo
sempre con l'arte sua la fara trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,
que' cittadin che poi la rifondarno
sovra 'l cener che d'Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
Io fei gibetto a me de le mie case>>.
Inferno ? Canto XIV
Poi che la carita del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende'le a colui, ch'era gia fioco.
Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.
A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.
La dolorosa selva l'e ghirlanda
intorno, come 'l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa.
Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d'altra foggia fatta che colei
che fu da' pie di Caton gia soppressa.
O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
cio che fu manifesto a li occhi mei!
D'anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.
Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continuamente.
Quella che giva 'ntorno era piu molta,
e quella men che giacea al tormento,
ma piu al duolo avea la lingua sciolta.
Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.
Quali Alessandro in quelle parti calde
d'India vide sopra 'l suo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,
per ch'ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, accio che lo vapore
mei si stingueva mentre ch'era solo:
tale scendeva l'etternale ardore;
onde la rena s'accendea, com' esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.
Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da se l'arsura fresca.
I' cominciai: <<Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che ' demon duri
ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci,
chi e quel grande che non par che curi
lo 'ncendio e giace dispettoso e torto,
si che la pioggia non par che 'l marturi? >>.
E quel medesmo, che si fu accorto
ch'io domandava il mio duca di lui,
grido: <<Qual io fui vivo, tal son morto.
Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l'ultimo di percosso fui;
o s'elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta! ",
si com' el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra>>.
Allora il duca mio parlo di forza
tanto, ch'i' non l'avea si forte udito:
<<O Capaneo, in cio che non s'ammorza
la tua superbia, se' tu piu punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito>>.
Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: <<Quei fu l'un d'i sette regi
ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia
Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi;
ma, com' io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.
Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti>>.
Tacendo divenimmo la 've spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giu sen giva quello.
Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt' era 'n pietra, e ' margini dallato;
per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici.
<<Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno e negato,
cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com' e 'l presente rio,
che sovra se tutte fiammelle ammorta>>.
Queste parole fuor del duca mio;
per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto
di cui largito m'avea il disio.
<<In mezzo mar siede un paese guasto>>,
diss' elli allora, <<che s'appella Creta,
sotto 'l cui rege fu gia 'l mondo casto.
Una montagna v'e che gia fu lieta
d'acqua e di fronde, che si chiamo Ida;
or e diserta come cosa vieta.
Rea la scelse gia per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida.
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver' Dammiata
e Roma guarda come suo speglio.
La sua testa e di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e 'l petto,
poi e di rame infino a la forcata;
da indi in giuso e tutto ferro eletto,
salvo che 'l destro piede e terra cotta;
e sta 'n su quel, piu che 'n su l'altro, eretto.
Ciascuna parte, fuor che l'oro, e rotta
d'una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, foran quella grotta.
Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giu per questa stretta doccia,
infin, la ove piu non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, pero qui non si conta>>.
E io a lui: <<Se 'l presente rigagno
si diriva cosi dal nostro mondo,
perche ci appar pur a questo vivagno? >>.
Ed elli a me: <<Tu sai che 'l loco e tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giu calando al fondo,
non se' ancor per tutto 'l cerchio volto;
per che, se cosa n'apparisce nova,
non de' addur maraviglia al tuo volto>>.
E io ancor: <<Maestro, ove si trova
Flegetonta e Lete? che de l'un taci,
e l'altro di' che si fa d'esta piova>>.
<<In tutte tue question certo mi piaci>>,
rispuose, <<ma 'l bollor de l'acqua rossa
dovea ben solver l'una che tu faci.
Lete vedrai, ma fuor di questa fossa,
la dove vanno l'anime a lavarsi
quando la colpa pentuta e rimossa>>.
Poi disse: <<Omai e tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,
e sopra loro ogne vapor si spegne>>.
Inferno ? Canto XV
Ora cen porta l'un de' duri margini;
e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia,
si che dal foco salva l'acqua e li argini.
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa,
fanno lo schermo perche 'l mar si fuggia;
e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:
a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che ne si alti ne si grossi,
qual che si fosse, lo maestro felli.
Gia eravam da la selva rimossi
tanto, ch'i' non avrei visto dov' era,
perch' io in dietro rivolto mi fossi,
quando incontrammo d'anime una schiera
che venian lungo l'argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera
guardare uno altro sotto nuova luna;
e si ver' noi aguzzavan le ciglia
come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.
Cosi adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e grido: <<Qual maraviglia! >>.
E io, quando 'l suo braccio a me distese,
ficcai li occhi per lo cotto aspetto,
si che 'l viso abbrusciato non difese
la conoscenza sua al mio 'ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: <<Siete voi qui, ser Brunetto? >>.
E quelli: <<O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia>>.
I' dissi lui: <<Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m'asseggia,
farol, se piace a costui che vo seco>>.
<<O figliuol>>, disse, <<qual di questa greggia
s'arresta punto, giace poi cent' anni
sanz' arrostarsi quando 'l foco il feggia.
Pero va oltre: i' ti verro a' panni;
e poi rigiugnero la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni>>.
Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma 'l capo chino
tenea com' uom che reverente vada.
El comincio: <<Qual fortuna o destino
anzi l'ultimo di qua giu ti mena?
e chi e questi che mostra 'l cammino? >>.
<<La su di sopra, in la vita serena>>,
rispuos' io lui, <<mi smarri' in una valle,
avanti che l'eta mia fosse piena.
Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m'apparve, tornand' io in quella,
e reducemi a ca per questo calle>>.
Ed elli a me: <<Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorioso porto,
se ben m'accorsi ne la vita bella;
e s'io non fossi si per tempo morto,
veggendo il cielo a te cosi benigno,
dato t'avrei a l'opera conforto.
Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si fara, per tuo ben far, nimico;
ed e ragion, che tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent' e avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l'una parte e l'altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l'erba.
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s'alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que' Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta>>.
<<Se fosse tutto pieno il mio dimando>>,
rispuos' io lui, <<voi non sareste ancora
de l'umana natura posto in bando;
che 'n la mente m'e fitta, e or m'accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m'insegnavate come l'uom s'etterna:
e quant' io l'abbia in grado, mentr' io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.
Cio che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che sapra, s'a lei arrivo.
Tanto vogl' io che vi sia manifesto,
pur che mia coscienza non mi garra,
ch'a la Fortuna, come vuol, son presto.
Non e nuova a li orecchi miei tal arra:
pero giri Fortuna la sua rota
come le piace, e 'l villan la sua marra>>.
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: <<Bene ascolta chi la nota>>.
Ne per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni piu noti e piu sommi.
Ed elli a me: <<Saper d'alcuno e buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
che 'l tempo saria corto a tanto suono.
In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d'un peccato medesmo al mondo lerci.
Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d'Accorso anche; e vedervi,
s'avessi avuto di tal tigna brama,
colui potei che dal servo de' servi
fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione,
dove lascio li mal protesi nervi.
Di piu direi; ma 'l venire e 'l sermone
piu lungo esser non puo, pero ch'i' veggio
la surger nuovo fummo del sabbione.
Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e piu non cheggio>>.
Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.
Inferno ? Canto XVI
Gia era in loco onde s'udia 'l rimbombo
de l'acqua che cadea ne l'altro giro,
simile a quel che l'arnie fanno rombo,
quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d'una torma che passava
sotto la pioggia de l'aspro martiro.
Venian ver' noi, e ciascuna gridava:
<<Sostati tu ch'a l'abito ne sembri
esser alcun di nostra terra prava>>.
Ahime, che piaghe vidi ne' lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri.
A le lor grida il mio dottor s'attese;
volse 'l viso ver' me, e <<Or aspetta>>,
disse, <<a costor si vuole esser cortese.
E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i' dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta>>.
Ricominciar, come noi restammo, ei
l'antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di se tutti e trei.
Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti,
cosi rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, si che 'n contraro il collo
faceva ai pie continuo viaggio.
E <<Se miseria d'esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi>>,
comincio l'uno, <<e 'l tinto aspetto e brollo,
la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se', che i vivi piedi
cosi sicuro per lo 'nferno freghi.
Questi, l'orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:
nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada.
L'altro, ch'appresso me la rena trita,
e Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo su dovria esser gradita.
E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie piu ch'altro mi nuoce>>.
S'i' fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che 'l dottor l'avria sofferto;
ma perch' io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.
Poi cominciai: <<Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia,
tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i' mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse.
Di vostra terra sono, e sempre mai
l'ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai.
Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi>>.
<<Se lungamente l'anima conduca
le membra tue>>, rispuose quelli ancora,
<<e se la fama tua dopo te luca,
cortesia e valor di se dimora
ne la nostra citta si come suole,
o se del tutto se n'e gita fora;
che Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va la coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole>>.
<<La gente nuova e i subiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, si che tu gia ten piagni>>.
Cosi gridai con la faccia levata;
e i tre, che cio inteser per risposta,
guardar l'un l'altro com' al ver si guata.
<<Se l'altre volte si poco ti costa>>,
rispuoser tutti, <<il satisfare altrui,
felice te se si parli a tua posta!
Pero, se campi d'esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti giovera dicere "I' fui",
fa che di noi a la gente favelle>>.
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle.
Un amen non saria possuto dirsi
tosto cosi com' e' fuoro spariti;
per ch'al maestro parve di partirsi.
Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che 'l suon de l'acqua n'era si vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi.
Come quel fiume c'ha proprio cammino
prima dal Monte Viso 'nver' levante,
da la sinistra costa d'Apennino,
che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giu nel basso letto,
e a Forli di quel nome e vacante,
rimbomba la sovra San Benedetto
de l'Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;
cosi, giu d'una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell' acqua tinta,
si che 'n poc' ora avria l'orecchia offesa.
Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.
Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta,
si come 'l duca m'avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.
Ond' ei si volse inver' lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gitto giuso in quell' alto burrato.
'E' pur convien che novita risponda',
dicea fra me medesmo, 'al novo cenno
che 'l maestro con l'occhio si seconda'.
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l'ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!
El disse a me: <<Tosto verra di sovra
cio ch'io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch'al tuo viso si scovra>>.
Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna
de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote,
pero che sanza colpa fa vergogna;
ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedia, lettor, ti giuro,
s'elle non sien di lunga grazia vote,
ch'i' vidi per quell' aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,
si come torna colui che va giuso
talora a solver l'ancora ch'aggrappa
o scoglio o altro che nel mare e chiuso,
che 'n su si stende e da pie si rattrappa.
Inferno ? Canto XVII
<<Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l'armi!
Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza! >>.
Si comincio lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
vicino al fin d'i passeggiati marmi.
E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivo la testa e 'l busto,
ma 'n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia d'uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d'un serpente tutto l'altro fusto;
due branche avea pilose insin l'ascelle;
lo dosso e 'l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.
Con piu color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari ne Turchi,
ne fuor tai tele per Aragne imposte.
Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come la tra li Tedeschi lurchi
lo bivero s'assetta a far sua guerra,
cosi la fiera pessima si stava
su l'orlo ch'e di pietra e 'l sabbion serra.
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in su la venenosa forca
ch'a guisa di scorpion la punta armava.
Lo duca disse: <<Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che cola si corca>>.
Pero scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella.
E quando noi a lei venuti semo,
poco piu oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.
Quivi 'l maestro <<Accio che tutta piena
esperienza d'esto giron porti>>,
mi disse, <<va, e vedi la lor mena.
Li tuoi ragionamenti sian la corti;
mentre che torni, parlero con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti>>.
Cosi ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta.
Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di la soccorrien con le mani
quando a' vapori, e quando al caldo suolo:
non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col pie, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.
Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne' quali 'l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi
che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch'avea certo colore e certo segno,
e quindi par che 'l loro occhio si pasca.
E com' io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che d'un leone avea faccia e contegno.
Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un'altra come sangue rossa,
mostrando un'oca bianca piu che burro.
E un che d'una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: <<Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e perche se' vivo anco,
sappi che 'l mio vicin Vitaliano
sedera qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fiate mi 'ntronan li orecchi
gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano,
che rechera la tasca con tre becchi! ">>.
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che 'l naso lecchi.
E io, temendo no 'l piu star crucciasse
lui che di poco star m'avea 'mmonito,
torna'mi in dietro da l'anime lasse.
Trova' il duca mio ch'era salito
gia su la groppa del fiero animale,
e disse a me: <<Or sie forte e ardito.
Omai si scende per si fatte scale;
monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo,
si che la coda non possa far male>>.
Qual e colui che si presso ha 'l riprezzo
de la quartana, c'ha gia l'unghie smorte,
e triema tutto pur guardando 'l rezzo,
tal divenn' io a le parole porte;
ma vergogna mi fe le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.
I' m'assettai in su quelle spallacce;
si volli dir, ma la voce non venne
com' io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'.
Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch'i' montai
con le braccia m'avvinse e mi sostenne;
e disse: <<Gerion, moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco;
pensa la nova soma che tu hai>>.
Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, si quindi si tolse;
e poi ch'al tutto si senti a gioco,
la 'v' era 'l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l'aere a se raccolse.
Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandono li freni,
per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse;
ne quando Icaro misero le reni
senti spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui <<Mala via tieni! >>,
che fu la mia, quando vidi ch'i' era
ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.
Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n'accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta.
Io sentia gia da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi 'n giu la testa sporgo.
Allor fu' io piu timido a lo stoscio,
pero ch'i' vidi fuochi e senti' pianti;
ond' io tremando tutto mi raccoscio.
E vidi poi, che nol vedea davanti,
lo scendere e 'l girar per li gran mali
che s'appressavan da diversi canti.
Come 'l falcon ch'e stato assai su l'ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere <<Ome, tu cali! >>,
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;
cosi ne puose al fondo Gerione
al pie al pie de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone,
si dileguo come da corda cocca.
Inferno ? Canto XVIII
Luogo e in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.
